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venerdì 18 agosto 2023

Musica ed empatia

Molti musicisti tecnicamente abili con lo strumento, la voce o la bacchetta, nel momento in cui salgono sul palco e si trovano ad interagire con altri musicisti e col pubblico mostrano improvvisamente i limiti della loro arte. Diciamo che subito si dimostrano "bravi ma antipatici". Qualcosa di importante non accade, perché l'essere umano non riesce a trasmettere quel "quid" indispensabile per relazionarsi con chi ha di fronte. Diciamo che li si può genericamente definire "poco empatici", per via della mancanza di compassione nel senso più prossimo all’etimologia, che significa "patire insieme".

Si sa che l'empatia è la capacità di comprendere e condividere i sentimenti degli altri, mettendosi nei loro panni e comprendendo le loro prospettive. È certamente un aspetto importante delle nostre relazioni umane, perché consente di stabilire connessioni significative con il prossimo e rispondere in modo compassionevole alle esigenze emotive. Però, quando l'empatia è a senso unico può generare conflitti e portare a conseguenze negative per il benessere interiore e la vitalità di una persona, perché la reciproca capacità di connettersi emotivamente con gli altri è importante per una vita soddisfacente e significativa. Le persone che mancano di empatia possono avere difficoltà a comprendere appieno le esperienze degli altri, a riconoscere le loro emozioni e, soprattutto, a rispondere in modo appropriato. Questo solipsismo può portare a difficoltà nelle relazioni interpersonali, ad una mancanza di comprensione reciproca e persino ad un pernicioso isolamento sociale.



Chi fra noi musicisti, soprattutto insegnanti, non ha assistito almeno una volta nella vita a situazioni simili? Alcune persone, artisti o no, potrebbero essere naturalmente meno predisposte a causa della loro personalità o delle loro esperienze di vita, mentre altri potrebbero sviluppare una mancanza di empatia a causa di fattori traumatici precoci o disturbi psicologici.

La mancanza di empatia non implica automaticamente la "morte dell'anima", poiché le persone possono sviluppare una varietà di meccanismi di adattamento e strategie per affrontare le sfide emotive che hanno di fronte. La psicologia umana è complessa e molteplice, e ci sono molti fattori che contribuiscono alla formazione dell'identità e al benessere di una persona.
Quando mi è capitato, e tuttora accade, di interagire con persone e musicisti che sembrano mancare di empatia, ho cercato di comprendere le prospettive e le ragioni che si celano dietro il loro comportamento, ma quando mi accorgo che ciò può avere un impatto negativo sulla mia vita o su quella di chi mi sta vicino, so bene che il supporto di chi ha la chiave per trattare la salute mentale, o meglio dell'anima, potrebbe fornire un orientamento appropriato, certamente mai risolutivo.
Alla fine, parlo per esperienza personale, le persone meno empatiche conosciute in vita, sono quelle che definirei più sospettose, attente, sempre guardinghe, tendenzialmente invidiose, sofferenti e prigioniere di un cliché.
Quelle più fiduciose si mostrano sempre per ciò che sono: libere.

venerdì 4 agosto 2023

Le audizioni, ovvero come imparare presto a vivere senza la musica, ma trovando un impiego grazie alla musica.

 


Qualsiasi giovane strumentista che abbia avuto occasione di affrontare un'audizione o un concorso in un'orchestra, oltre ad essersi trovato nella situazione stressante di uno studio che per settimane, se non mesi va ben oltre l'impegno richiesto, al momento dell'esecuzione di fronte alla commissione o addirittura all'orchestra intera, pur sapendo di avere dato il massimo si ritrova di sovente non idoneo. Di certo ciò non accade per incapacità del singolo giovane musicista, bensì a causa dei parametri che da tempo sono utilizzati per definire le capacità tecniche e poi musicali. Per cui, ad un giovane violinista che fa l'audizione per violino di fila in un'orchestra da camera dove solitamente il repertorio non va oltre Mendelssohn, sono richiesti passi dal Don Juan di Strauss o dal Romeo e Giulietta di Prokofiev. Oppure capita che per il posto di corno sia richiesto il Terzo movimento della Pastorale di Beethoven eseguito a folle velocità ma palesemente anti-musicale, condito pure dal solo della Settima di Bruckner. Poi accade (e non è raro) che grazie al superamento di virtuosismi inutili, il candidato si ritrovi assunto e al primo appuntamento con una sinfonia di Brahms non sappia dove mettere le mani, per il fatto che in vita sua non ha frequentato profondamente quel repertorio ascoltandolo, approfondendolo sentimentalmente e creandosi un'estetica personale e particolare che con la tecnica strumentale non ha nulla a che fare.

C'è un passo nella Terza Sinfonia di Brahms che richiede un rallentando non scritto, ma che fa parte del DNA di quella musica. Ci sono attese, respiri e intenzioni sottintese che a 25 o 30 anni non puoi non conoscere. Se non conosci ciò, significa che non sei mai stato innamorato della Musica ma soltanto della tua soddisfazione muscolare. Poi accade che si innesti una spirale di errori interpretativi che passano dal direttore allo strumentista, al pubblico e così via, sottraendo alla Musica quella parte che le è propria e immutabile, a prescindere dalla sua più o meno corretta esecuzione tecnica. Poi il tempo passa e, a scapito della Musica, qualcosa si impara.
Ricordo che qualche decennio fa Gianandrea Gavazzeni, in una pausa durante le prove di Bohème alla Scala, mi disse: "Eh, vede caro Serembe! Qui è pieno di giovani che suonano benissimo, hanno un'ottima tecnica, ma NON CONOSCONO BOHÈME, non la conoscono!"  
Alla fine, in questi vent'anni di internet che ha orribilmente rimbecillito l'umanità, la mancanza di frequentazione profonda e di dedizione del tempo richiesto per l'ascolto esteriore ed interiore, ci ha regalato soltanto orchestre che suonano tutte allo stesso modo, magari in modo impeccabile, ma noiose, molto aggressive nel modo di suonare e soggette a ritmi che richiedono ai musicisti gli antidepressivi o i calmanti, sempre presenti nella valigetta del Medico accompagnatore durante le tournée. Calo un velo pietoso sulle orchestre come i Berliner che suonano con un microfono posto di fronte ad ogni esecutore. Affermare che sia ridicolo è insufficiente, ma non trovo altra espressione aulica adatta a chi legge.



sabato 3 settembre 2022

giovedì 16 giugno 2022

La bellezza ci insegna

Chiunque viva quella particolarissima e quotidiana situazione di condivisione della bellezza, nelle sue più svariate forme e nei momenti di massima suggestione, spesso si ritrova coinvolto in stati di ammirazione e stupore indescrivibili. Si tratta di stati emozionali personali e totalizzanti, per i quali e nei quali ognuno trova una speciale risposta. L'oggettività della bellezza è l'unica sulla quale siamo tutti d'accordo, per il fatto che essa scaturisce dai valori e dal tempo della nostra cultura e solitamente ci dona un senso di appagamento e benessere. A volte è compartecipe degli stati più drammatici della nostra vita ed è proprio grazie al contrasto con quei momenti che troviamo in essa la sua massima capacità di persuasione.

In musica, la più fragile delle arti che necessita di un interprete per essere recepita e compresa, i momenti di estasi e angoscia sono complementari. Per alcuni autori come Beethoven e Schubert, solo per fare due esempi, la scelta delle tonalità e quindi del colore strumentale, è fondamentale per ottenere il massimo risultato espressivo. Sono momenti specialissimi dove l'interprete si trova di fronte alla ben nota "domanda senza risposta", o meglio ad una risposta che non prevede domanda in quanto già completa. Esempi beethoveniani sono le tonalità di Re bemolle e La bemolle maggiore, punte di massima intensità dove una luce accecante erompe come un senso di verità assoluta. Esempio lampante il terzo movimento della Nona Sinfonia. In Schubert invece, è l'ombra che fa da padrona. La luce è sempre presente, ma è come se desiderasse rimanere nascosta, come il sole dietro le frasche di un bosco. Il secondo movimento della Sinfonia "Incompiuta" è ricco di questi magici istanti. Ecco, questi sono i momenti musicali che personalmente vivo sempre in modo positivo, anche se contrastante. Beethoven mi dà la certezza e Schubert mi incute il dubbio. Entrambi mi fanno domande ed entrambi mi danno risposte. 

Ho trascorso la vita ad insegnare e tuttora l'insegnamento è la mia più grande passione e fonte di sostegno affettivo. Molti anni fa, lessi uno scritto di Monsignor Gianfranco Ravasi che ricordava le parole del celebre pensatore francese Roland Barthes: "Vi è un'età in cui si insegna ciò che si sa, ma poi ne viene un'altra in cui si insegna ciò che non si sa e questo si chiama cercare". Egli concludeva che "non si insegna mai ciò che si sa ma ciò che si è". Ecco, quando si tratta di trasmettere il significato delle cose, oltre che la loro oggettività, questa condotta da parte del docente è fondamentale. Soprattutto oggi, di fronte a una gioventù rapidissima nel consumare i sentimenti e le emozioni ma restia a condividerle, certe volte è un'impresa ardua riuscire a condividere le proprie sensazioni personalissime e sincere.

Dieci anni fa ho fondato l'Italian Conducting Academy di Milano e da allora molti giovani si sono avvicendati. Da qualche anno però, vedo con piacere che c'è un desiderio di ricerca personale precoce e ritengo che ciò sia molto dovuto ad uno stato di insoddisfazione verso un insegnamento musicale sempre più perfezionistico, direi proprio "digitale" dove l'elemento umano di empatia e simpatia è andato molto scemando, ma che è fortemente richiesto dall'ultima generazione di giovani artisti. Nel caso della Direzione d'Orchestra ciò si fa molto più sentire, in quanto lo strumento del direttore non è la tastiera del pianoforte, bensì l'insieme delle anime condivise che gli sono di fronte. Come far sì che un giovane possa acquisire competenze extra-musicali oltre che meramente tecniche? Ovviamente, qui entra in gioco la capacità di condivisione emozionale del maestro, che ha il faticosissimo e particolarissimo compito di salvaguardare l'unicità dell'allievo per renderlo consapevole che è un universo in miniatura non replicabile, rammentando sempre che tutti noi conserviamo l'indivisibilità di esso: il corpo e lo spirito. La fisicità della musica e la sua natura metafisica sono trascurate come elementi di unicità; insegnare soltanto la parte fisica è ovviamente molto più semplice, in quanto è tutto già stato sperimentato, decifrato, razionalizzato ed elaborato nei decenni, se non nei secoli. La natura metafisica della musica è invece qualcosa sempre in mutamento, perché muta col pensiero dell'uomo. Il problema è che l'uomo necessita di un pensiero e all'interno di esso c'è la parte razionale, logica, e quella irrazionale, ovvero più istintiva. Senza di essa è impossibile crearsi un percorso di intuizione che ci permetta di sviluppare un pensiero lontano dagli schemi tecnici così facili da acquisire e sempre a buon mercato. Il mio compito è anche, soprattutto, questo. Sviluppare l'individuo artista e non soltanto un semplice esecutore. Come aveva scritto Don Milani su un cartello della sua scuola di Barbiana, "I CARE".






domenica 9 maggio 2021

La perfezione dell’imperfezione



Per caso mi imbatto nei consueti tre minuti di un clip promozionale della Digital Concert Hall dei Berliner Philharmoniker alle prese con una sinfonia di Bruckner diretta da Zubin Mehta, durante la fase post-pandemica. Tralascio il commento sull’inascoltabile suono digitale, inevitabilmente compresso per una questione di spazio virtuale, che va bene per orecchie ormai definitivamente compromesse e che non permettono di riconoscere la spazialità di una vera esecuzione dal vivo, molto più di quanto accadeva un tempo con le registrazioni analogiche. Tali sono i modelli del momento, ma si sa che come tali scompariranno, come tutto del resto.

Sorvolo sulla ineccepibile perfezione dei singoli strumentisti, veri e propri virtuosi di prima classe che uniti costituiscono una vera e propria macchina da guerra, una Wehrmacht potentissima in grado di annientare qualsiasi tentativo di imitazione. Una perfezione esecutiva al limite dell’insopportabile, che tende però ad uniformare l’esecuzione del repertorio a causa dell’aggressività per la quale quest’orchestra da molti anni è caratterizzata e che si pone ben lontana dai fascini sonori di un tempo, tutto sommato non troppo lontano. Purtroppo (sic!) la maggior parte delle orchestre oggi suona sempre bene ma più o meno allo stesso modo. Come i BPO, quasi tutte le altre più celebri orchestre “occidentali” hanno questa impronta: dalla LSO alla NYPO, dal Concertgebouw all’ONF e pure i celebri Wiener non ne sono immuni.

La possibilità di viaggiare facilmente e assistere alle masterclass di molti artisti di prim’ordine, di sovente prime parti in grandi compagini, da tempo ha diffuso fra i giovani aspiranti strumentisti una sorta di vademecum tecnico che fa da padrone e che delinea le linee estetiche alle quali le nuove generazioni di strumentisti devono attenersi per essere accettate da un mondo musicale sempre più algido e perfezionista. In questo senso, i concorsi e le audizioni delle orchestre si sono trasformati e, se un tempo era necessario dimostrare la cosiddetta “musicalità”, ovvero un insieme di requisiti umani e tecnici, oggi quelli più richiesti sono la mancanza di emotività, una certa maturità precoce, poco individualismo e soprattutto una sorta di comune cliché esecutivo. 


Già, ma dove risiede la perfezione di un’orchestra, a parte la capacità di suonare le note giuste, correttamente intonate e a tempo? Dove risiede l’intesa di un’orchestra, ovvero la sua capacità di vibrare in un certo modo, modificando il fantastico mondo sonoro attraverso il quale ritrovarsi in quella unità speciale che successivamente serve ad accompagnare l’ascoltatore in un particolarissimo viaggio?
La tecnica esecutiva delle orchestre moderne ha raggiunto un livello altissimo e difficilmente si assiste ad una brutta esecuzione. L’interpretazione si è standardizzata, c’è molta agilità, ma è arduo ascoltare un’orchestra che vibri in modo particolare e che si allontani dalla routine, seppure di alto livello. Chi ha avuto le orecchie educate in altri ambiti sonori, sa cosa significa.
Un esempio che i musicisti sensibili conoscono: in ambito tonale, suonare intonato non significa necessariamente essere sempre a posto col diapason, perché esso varia col variare della successione accordale e delle modulazioni. Il valente musicista “musicale” sa che una nota suonata in un accordo, a seconda della sua posizione, oltre che variare d’intonazione assume un colore differente e, di conseguenza, un significato differente. Chiaramente, se sin da giovani si è educati con questo criterio estetico e non solo tecnico, sarà ben difficile non mantenerlo cucito addosso, come una vibrante seconda pelle.

Ovviamente, qui si entra in un ambito più di tipo metafisico che fisico, dove la sensibilità dovrebbe sollecitare la parte più razionale, affinché il risultato non si riveli troppo artificioso. Ciò richiederebbe un ritorno a quella sfera intima e a quello scambio interpersonale fra interprete (il direttore) e i musicisti dell’orchestra, ormai ridotto a un “mordi e fuggi”. Significherebbe più impegno, più profondità, più desiderio di volare alto e al contempo immergersi in quel silenzio necessario che manca a tutti noi. Riprendersi quel tempo personale e musicale indispensabile per allargare il tempo tout-court. Ripensare ai modelli ideali che hanno spinto i musicisti a sposare un mondo fantastico, bellissimo e allo stesso tempo difficile, impegnativo più di un matrimonio e che al di sopra di tutto richiede affettività ed empatia, un connubio assolutamente indispensabile.

Tutto ciò, nonostante i giganteschi problemi economici causati dalla pandemia, deve riguardare le realtà più giovani che dovranno essere in grado di dare la spinta iniziale per la ripresa di quello che in molti già definiscono “il nuovo Rinascimento”. Le celebri realtà ormai consunte, per grandi che siano, non saranno di certo il motore del nuovo, perché questi due anni terribili hanno invecchiato il mondo intero e hanno fatto comprendere che il rinnovamento non potrà perseguire soltanto la linea razionale (tantomeno solo tecnologica). Siamo stati investiti di nuove responsabilità ed i musicisti, come del resto gli artisti in generale, dovranno ripensare seriamente a quanto fatto troppo in fretta, dimenticare le forme esteriori che hanno pesantemente accompagnato gli ultimi decenni e farsi promotori di nuove proposte profonde, in grado di modificare non soltanto l’azione, ma soprattutto ciò che la precede: il pensiero.




sabato 27 marzo 2021

I giovani artisti in un mondo sempre più vecchio.

Credo che non esista cosa peggiore del non accettare sé stessi, non individuare il proprio carattere e i veri bisogni, le mutazioni interiori che ci accompagnano sin da quando abbiamo l'età della ragione e che aiutano a comprendere il significato più profondo, lungo il faticoso percorso che attende ognuno di noi.
C'è un momento nella vita del giovane artista adulto, nella quale il legittimo desiderio di affermazione, se non sorretto da un forte e coinvolgente slancio emotivo e generosità verso il mondo esterno, si tramuta in una sorta di avidità accompagnata da un brutto sentimento, quello dell'invidia, che fa apparire tutto deformato e inevitabilmente poi accieca, facendo perdere la percezione di sé e degli altri. 

In genere, colpisce quegli individui apparentemente gioviali, simpatici e spesso intelligenti, ma che si dimostrano superficiali pur essendo in possesso di una formazione ben definita, apparentemente solida. Di sovente sono individui privi di empatia, che non avendo saputo accettare la propria natura, assecondarla e svilupparla, rimangono prigionieri di simpatie esterne dalle quali poi dipendono per la realizzazione personale, in quanto bisognosi di un continuo supporto alla propria vitale affermazione. È il momento in cui non si accorgono dell'esistenza contemporanea di tantissime persone che, nelle medesime condizioni e per i medesimi motivi, sono all'inseguimento di modelli poco appropriati, già percorsi e sfruttati in un brevissimo lasso di tempo, quello del web, che tutto consuma e brucia all'istante. Anziché cercare le novità in sé stessi, questi uomini le inseguono altrove, vagando affannosamente in frequentazioni alla moda, cercando supporti economicamente impegnativi difficilmente onorabili, ed essendo alla fine perennemente schiavi e debitori di qualcuno. 
Il fraintendimento è alle porte. In un mondo che vive sul click e sul like di pochi secondi, senza inizio e senza fine, senza storia e senza memoria, si pretende di rimanere impressi e scolpiti nel marmo, ma ci si ritrova soltanto effigiati in una scultura di sabbia, presto distrutta dalle onde del mare. Allora è un continuo adeguarsi, un affanno per una spasmodica attività di confezionamento della propria immagine, a somiglianza di gusti già consumati, cliché imposti e di breve durata, senza peso, senza profondità e senz’anima. L’anima, ovvero l’unica identità personale che conta e che ci accompagna dalla nascita alla morte, con tutte le scelte e le azioni da essa dettate.


domenica 27 dicembre 2020

Le Arti dello spettacolo e la pandemia del 2020

 

All'inizio di questa inattesa ma prevedibile pagina della nostra storia, sicuramente pochi fra noi si sono subito resi conto delle immediate trasformazioni sociali, ancor prima che economiche, alle quali saremmo andati incontro e alle quali ci saremmo dovuti inevitabilmente adattare. I tempi storici e gli avvenimenti ad essi collegati sono sempre imprevedibili. Si sa quando inizia una guerra, spesso non si sa chi l'ha iniziata e nessuno ne conosce la durata. Questo periodo, sotto certi aspetti possiamo accomunarlo a quello dei conflitti, se non con l'eccezione che per tutta la loro durata la vita sociale delle persone, seppur frantumata dagli eventi, alla prima occasione tende a saldarsi in occasione di ogni situazione sicura.  Al contrario, durante questa pandemia dove il motto era e tuttora è l'orrenda unione di parole "distanziamento sociale", i rapporti fra le persone sono divenuti sempre più rari, egoisti, tesi e sospettosi, fino al recupero di un termine come "negazionista", che si sarebbe dovuto associare a quello pressoché mai pronunciato di "collaborazionista". Ma si sa, in momenti come questi la stampa e i media in generale non mancano mai di trovare il modo più bizzarro ed estremistico per definire le persone e gli avvenimenti. 

Fatto sta, che tutto il clima di paura scaturito a causa di un evento al quale il nostro mondo non era più abituato, ha innescato una serie di reazioni a catena che hanno in pochi mesi distrutto abitudini secolari, certezze, ideali, riti, idee e miti. Fra le categorie che hanno subito la peggiore batosta c'è quella degli artisti. Musicisti, ballerini e attori si sono in brevissimo tempo impoveriti non soltanto economicamente, ma anche per aver perduto quel momento di visibilità che per questo tipo di figure, da sempre, è integrante della loro arte e necessario nutrimento. Ad esempio, per i musicisti i tentativi di porre rimedio alla carenza di vita musicale attiva con surrogati di tipo "liquido" sul web e confinati entro la risoluzione di qualche pixel, con la compressione dei suoni e l'inevitabile azzeramento della prospettiva fisica, hanno mostrato sin da subito la loro debolezza, se non addirittura l'inconsistenza.
La fruizione dell'avvenimento artistico, legata al finissimo rapporto col pubblico costituito dal riverbero ambientale ed emotivo, si è risolta con una specie di cartolina virtuale, un segnale per comunicare agli amici, ai propri cari e agli sparuti appassionati collegati online un messaggio di esistenza in vita e di speranza, in attesa di riprendere tutto come prima. E qui sorge spontanea la domanda: ma sarà tutto come prima? Personalmente, mi sono già dato la risposta ed è un "probabilmente no". Ora vi spiego perché.

Chiunque abbia frequentato un teatro o una sala da concerto sa che il pubblico, da sempre, è più o meno sempre quello. Nei luoghi più deputati all'ascolto, soprattutto nelle grandi città, chi li frequenta appartiene di sovente a quelle poche migliaia di affezionati che con regolarità si spostano dal teatro d'opera alla sala da concerto, ricalcando un antico rito di partecipazione spesso legato alla presenza di artisti o repertori molto conosciuti. In pratica, gli abbonati alla routine. Sono anche i medesimi che possono permettersi una più o meno regolare presenza, per il semplice motivo che non sono soggetti ad abbassare la saracinesca alle 19, se non addirittura alle 24, quelli che dopo aver fatto anche due ore di viaggio dal luogo di lavoro a casa non vedono l'ora di andare a letto e tutta quella infinita tipologia di persone che, obbligatoriamente, può soltanto appassionarsi a distanza. Una volta avveniva per mezzo della radio, poi coi dischi, i cd ed ora col web. Quindi, apparentemente, nulla di nuovo sotto il sole, ma oggi c'è una variante complessa: la paura del contagio e della morte rischia di superare la forza della passione. Sarà un problema superare questo "impasse", soprattutto di natura psicologica.

La chiusura "sine die" di migliaia di teatri e sale da concerto in tutto il mondo, con la relativa enorme perdita delle forze umane, non fa sperare in una ripresa normale, per lo meno a breve termine. Il MET, come altri teatri nel mondo, ha chiuso mandando a casa più di mille dipendenti, con una perdita di 150 milioni di dollari. A questa comune situazione dobbiamo aggiungere tutto l'indotto, un indotto che si sa dove inizia, ma che sappiamo non avere fine. Rimettere in moto una macchina come questa non è impresa da poco. Non saranno sufficienti i contributi per chi se li può permettere, ma sarà necessaria una totale rivisitazione del mondo musicale, a iniziare dai modi e dai tempi che fin qui gli sono appartenuti. Se la prevenzione di altre future ed inevitabili pandemie è già iniziata con un riassetto dei tempi di spostamento delle persone e la differenziazione degli orari per molte attività, dalla scuola ai servizi, è inevitabile che anche il mondo delle arti dello spettacolo ne dovrà subire le logiche conseguenze. 




Quasi cent'anni fa, il filosofo e matematico Premio Nobel Bertrand Russell scriveva: "La tecnica moderna consente che il tempo libero, entro certi limiti, non sia una prerogativa di piccole classi privilegiate, ma possa essere equamente distribuito tra tutti i membri di una comunità. L’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi". Il famoso motto "lavorare meno, lavorare tutti" ovvero, l'obiettivo di favorire l’equilibrio tra vita privata e lavorativa. Siccome questo principio sacrosanto riguarda tutti ed oggi, in un periodo in cui sotto certi aspetti il Comunismo è uscito dalla porta di servizio vestito da straccione ed è rientrato dalla finestra con gli abiti falsi griffati, non possiamo permetterci di ignorare la realtà delle cose. O ci accontentiamo del passato, con le inevitabili conseguenze di morte lenta e certa, o ci rinnoviamo davvero. 
Il rinnovamento dovrebbe partire da logiche articolate ma semplici. Ad esempio, il rito del concerto legato a momenti speciali, per musiche speciali e il suo aspetto davvero esclusivo, dovrebbe tornare alla sua logica "aristocratica", spogliandosi di quel logoro vestito "democratico-popolare" che per un mondo ignorante, abitudinario e a volte insensibile qual è quello della maggior parte del pubblico di oggi, legato ai "pareri altrui", di questi tempi poco si presta ad essere indossato. Il coraggio delle scelte è fondamentale. In quest'ottica, l'ideazione di nuove forme di impegno da parte dei musicisti, dei ballerini o degli attori, affinché possano donare la loro opera in ogni momento della giornata e non mostrare soltanto la punta dell'iceberg, potrebbe essere motivo di un maggior coinvolgimento e vera diffusione dell'arte e del suo mondo attivo, fatto di donne e uomini che come gli altri lavorano sodo. 

Ecco, pur mantenendo gli equilibri e le gerarchie necessarie al valore dell'opera artistica e degli artisti, nuovi momenti di apertura per mostrare il nostro mondo e condividerlo, sarebbero davvero auspicabili. Se con il nuovo ordine delle cose ci saranno intere comunità che potranno soltanto assistere al momento di creazione di un'interpretazione, anziché magari alla sua sola esecuzione finale, perché non consentire loro di godere queste occasioni, caratterizzate da altrettanto nobile valore? Aprire le prove di un concerto, di un'opera o di un balletto non potrebbe essere uno stupendo momento di condivisione? Certo, questo implica un ridimensionamento della figura mitica dell'artista in veste di paladino, unico e quasi immortale difensore di un modello interpretativo ormai un po' desueto e di un suo rinnovamento. Chi gestisce l'arte, dovrebbe avere il coraggio delle nuove scelte: nuovi artisti, nuovi compositori e nuovi repertori.

L'operazione andata in scena con l'apertura del 7 dicembre 2020 al Teatro alla Scala è stata la dimostrazione di quanto questo mondo sia ancora ricoperto di muffa e di come, pur in un momento difficile, non ci sia stato il coraggio di proporre alcuna novità. Una minestra abilmente riscaldata, guarnita con indubbia passione da cuochi esperti ma senza idee e senza audacia da parte di un teatro che da sempre si propone come modello.
Sarà compito delle nuove generazioni di artisti osare, rinunciando un po' alla personale visibilità e valorizzando l'arte con un nuovo pensiero e con una nuova azione. Chi oggi fa ingresso nel mondo dell'arte, musicista o attore che sia, se è un vero artista ha molte responsabilità. Oltre che su sé stesso dovrà puntare molto sul futuro mantenimento in vita dell'arte, nonché della bellezza nel suo complesso, iniziando con l'amore e il rispetto per essa, nutrimenti indispensabili per poterla far vivere in ogni occasione, in ogni futuro.
 






sabato 22 agosto 2020

Generazioni

 


Quando sento dire che le nuove generazioni sono eccessivamente coccolate, senza spirito di sacrificio, che devono impegnarsi di più e assumersi responsabilità, mi tornano in mente le medesime parole ascoltate in gioventù. A parte l'attuale momento inatteso colmo di terrore, ansia, bugie e mezze verità, credo che tutte le nuove generazioni, periodi di vere e lunghe guerre a parte, abbiano usufruito da sempre di un benessere superiore a quello dei loro genitori. Dall'invenzione della ruota, alle macchine calcolatrici di Pascal e Leibniz nel 1600, alla macchina a vapore nel 1700, all'illuminazione elettrica nel 1800 e fino all'attuale computer ogni giovane individuo ha potuto in seguito usufruire della moderna tecnologia e delle sconosciute agevolazioni da essa derivate fino a quel momento, di sovente impraticabili dagli anziani. L'infiacchimento e il rimbambimento della società non sono manifestazioni nuove, ma da sempre hanno avuto illustrissimi progenitori e il progresso tecnologico è stato, ed è tuttora, un complice forse inevitabile di questo processo sociale.
Personalmente, durante il mio lungo periodo di insegnamento non ancora concluso, ho potuto verificare i modi ed i tempi sempre più ravvicinati del cambio generazionale. La differenza più sostanziale l'ho riscontrata in chi è nato senza computer, quindi con una propensione al pensiero quasi totalmente analogica, chi è nato prima di internet, chi invece ne ha in seguito usufruito e chi è nato completamente in un mondo digitale.



La caratteristica primaria di questa modificazione comportamentale, casi eccezionali e fortunati a parte, l'ho verificata nell'approccio individuale e nella carenza di affettività intesa come attaccamento, affezione e passione per le cose, per le persone e soprattutto per i propri desideri. Molta brama, molta disillusione, molta concretezza e competenza ma pochi sogni e poca visione. Questa anaffettività, termine caro agli psicopatologi, è certamente il tratto più evidente del carattere attuale di molti giovani, ma personalmente devo dire che da qualche tempo, soprattutto nella generazione nata intorno a metà degli anni '90, ho potuto riscontrare una notevole inversione di marcia ed un ritorno a modi decisamente più appassionati, liberi da imposizioni culturali, certamente più autonomi. Operando in un ambito molto speciale sono forse favorito dalla sorte, ma constato che il giovane gruppo di musicisti che da qualche anno mi segue, ha una serie di caratteristiche che sono certo lo renderà vincente, se non nell'immediato di sicuro nella costruzione del più intimo futuro, quello senza il quale fai due passi e poi ti fermi: è propenso a conoscere il passato (in questo caso musicale e interpretativo) e a valorizzarlo secondo le proprie attitudini, sta comprendendo e imparando dagli errori delle generazioni precedenti, dimostra una positiva capacità di adattamento al momento storico senza perdere le speranze, ma soprattutto manifesta un vero amore per la Musica e sa di appartenere ad un riservatissimo mondo popolato da chi ama la bellezza e rifiuta la volgarità. E tutto ciò, per sopravvivere nella giungla, non è poco.

giovedì 13 agosto 2020

Un simpatico ricordo del mio Maestro Mario Gusella (1913-1987)

Il primo violoncello ritratto nelle immagini a colori estrapolate dal celebre video della Messa da Requiem di Verdi diretta da Karajan e nelle tre successive in bianco e nero è Mario Gusella, il mio insegnante di Direzione d'Orchestra al Conservatorio di Milano.



Allievo del grande Gilberto Crepax e Emanuel Feuermann per il violoncello e di Hermann Scherchen per la direzione, per moltissimi anni fu prima parte dell'orchestra della Scala. All'inizio degli anni '70 venne chiamato ad insegnare per chiara fama, quando ciò era ancora possibile grazie al riconoscimento del proprio passato di musicista. Al termine della Seconda Guerra Mondiale non tornò subito a suonare, perché dovendo provvedere ai bisogni famigliari, si ritrovò a suonare il contrabbasso in un bar di via Manzoni dove, fra paghetta e mancia, sembra guadagnasse più che in orchestra.



Il caso volle che Toscanini, al suo celebre ritorno alla Scala, meravigliatosi della presunta perdita di un valente strumentista, fosse un giorno di passaggio proprio in quel bar e, ritrovandolo, lo abbia apostrofato in mal modo:"Ma Gusella! Cosa fai qui? Ma non ti vergogni di suonare il contrabbasso? Mi hanno detto che eri morto!"- "Ma no Maestro, sto bene, ma come può immaginare ho due figlie e moglie e devo provvedere a loro!"



Naturalmente, gli avevano fatto credere che era morto. Alla fine, sembra che fu proprio Toscanini a farlo riassumere, con tanto di paga adeguata. Roba impensabile oggi. Di carattere tutt'altro che facile, come quasi tutte le persone di carattere, Gusella fu sempre inviso a molti per la sua eccessiva, quasi morbosa correttezza, ma soprattutto perché era uno che non mandava a dire le cose. Te le diceva in faccia e stop. Ciò gli costò molto in fatto di "carriera". Ovviamente, in un mondo dove la diplomazia è di rigore e non ci si dovrebbe muovere come un elefante in un negozio di cristallerie, non era proprio il massimo...



Pur essendo da tutti riconosciuto per la sua maniacale precisione e passione infinita, stava sulle scatole per la sua eccessiva sincerità. Era fra i rarissimi direttori che studiava "appassionatamente" tutte le partiture di macelleria contemporanea dell'epoca. Di fronte a quelle che si rivelarono in seguito truffe allo stato puro, non mancò mai di riversare il rigore necessario alla loro migliore realizzazione. Comunista stalinista, di quelli duri e puri, era inviso a molti direttori artistici, sovrintendenti & Co., per il semplice fatto che non sapeva cosa fosse il compromesso e non mancava mai di mettere il naso nel posto sbagliato... In questo senso, come educatore, tutti noi gli dobbiamo qualcosa di davvero importante.



Un giorno, assieme ai miei compagni di classe, ero in attesa della lezione. Ricordo che era un venerdì mattina dell'autunno 1976. Gusella entrò in classe con sotto il braccio cinque o sei partiture di autori contemporanei al tempo molto in voga, sapete, quelle a due piazze... Le scaraventò fra nuvole di polvere sulla scrivania della sala d'Arte Scenica dove facevamo lezione sbottando con la sua penetrante vocina simile a quella dell'imperatore Palpatine, ma con accento romagnolo: "Ma sapete ragassi che mi sono rotto i c......i di dirigere queste menate? È tutta fuffa!"
E come nel film di Fantozzi, dopo la proiezione della Corazzata Potemkin, "scattarono novantadue minuti di applausi!"

sabato 1 agosto 2020

Il coraggio delle scelte

 

Ci sono parole che alle nostre orecchie suonano ormai desuete, quasi dei ricordi legati ai racconti di Cuore, il grande libro di De Amicis che generazioni di giovani hanno letto e riletto, senza tema di apparire nostalgici verso un passato comune, una volta soltanto legato ai buoni sentimenti di italiana appartenenza, e ora inevitabilmente globale.

Uno degli insegnamenti ricavati da certe letture è legato al loro contenuto inviolabile, alto di significati intorno alla nostra esistenza e moralmente inoppugnabili. Coraggio è una parola connessa a situazioni che il nostro mondo rilassato ha messo da parte, preferendogli termini legati ad altre quali l'arditezza, la temerarietà, la spavalderia, la prepotenza o l'aggressività; tutte caratteristiche che rivelano la caducità dell'uomo, incapace di affrontare situazioni critiche in modo decisamente positivo e proiettando la propria immagine oltre il breve confine temporale del successo. La ricerca spasmodica di esso è di sovente il risultato dell'educazione ricevuta in famiglia e a scuola. I genitori sono i primi artefici dell'educazione estetica dei figli, ovvero della creazione di quel particolare mondo fatto di aspirazioni personali e non soltanto di desideri. Difficilmente un figlio sarà poi così diverso da uno o entrambi i genitori, perché certe caratteristiche sono trasmesse attraverso i normali comportamenti quotidiani e non si imparano certamente sui manuali.



In decenni di insegnamento e attività musicale, stando a diretto contatto con centinaia di giovani, prima miei fratelli minori e poi figli e nipoti, ho sperimentato la felicità e la delusione della crescita o dell'esaurimento del potenziale di tantissimi musicisti di talento. Se a volte ciò era imputabile ad una fragilità personale o ad una mollezza dell'individuo, altre volte era il risultato dello sconsiderato intervento dei genitori, ambiziosi oltremodo e smaniosi di un rapido riconoscimento sociale, non tanto per i figli ma per sé stessi. Questo comportamento devastante, risultato di una debolezza umana molto comune fra gli individui, spesso eruditi ma non colti, ha fatto sì che quella caratteristica primaria, ovvero il Coraggio di affrontare situazioni scomode ma indispensabile per la propria evoluzione, venisse a mancare per mancanza di quella linfa vitale necessaria alla propria crescita. Per individui nati nel benessere, sia esso un risultato generazionale o familiare che li priva di una certa preparazione al disagio, alla sofferenza o educazione alla morigeratezza, la mancanza del Coraggio, ovvero di quella forza d'animo connaturata, spesso confortata dall'esempio altrui e che permette di affrontare e dominare situazioni difficili uscendone indenni, è da sempre determinante per la vita futura. Senza esso tutto diventa più difficile, pesante e a volte insopportabile.




Le scelte saranno sempre demandate ad interposte persone, abilissime nel far credere a te stesso e agli altri di possedere grandi qualità, il cui valore è già svilito a causa della mancanza di volontà d'intenzione, cosa ben differente dalla determinatezza nell'affrontare le situazioni. In battaglia si può avere la forza di uccidere il nemico, ma non essere in grado di vincere la guerra. Ci si può rifugiare in un bunker e attendere la notte, ma col sorger del sole tutto prenderà forma e definizione.

lunedì 27 luglio 2020

ROBERT SCHUMANN, al tempo della Seconda Sinfonia


Gli anni 1845 e 1846 furono difficili per Schumann. Nel 1844 era andato in tournée in Russia con sua moglie Clara, una delle più grandi pianiste dell'epoca, ed era frustrato e umiliato dal fatto di essere riconosciuto soltanto come il marito di un artista in primo piano e non in quanto distinto compositore e critico. Il ritorno della coppia a Lipsia trovò Robert nervoso, depresso e affetto da occasionali vuoti di memoria. Poco tempo dopo ebbe un completo esaurimento e il suo medico consigliò agli Schumann di tornare all'atmosfera più tranquilla di Dresda, dove Robert aveva precedentemente conosciuto momenti felici. Si trasferirono nell'ottobre 1844 e Schumann si riprese abbastanza da abbozzare completamente la Seconda Sinfonia nel dicembre dell'anno successivo. Iniziò l'orchestrazione a febbraio, ma molte volte gli fu impossibile lavorare, non riuscendo a finire la partitura fino a ottobre.



Clara notò che suo marito, notte dopo notte, non riusciva a dormire, piangendo costantemente fino al mattino. Il suo medico descrisse ulteriori sintomi: “Non appena si occupa di questioni intellettuali, è preso da attacchi di tremore, affaticamento, freddezza dei piedi e uno stato di angoscia mentale che culmina in uno strano terrore di morte, che si manifesta nella paura ispirata in lui dalle altezze, dalle stanze di un piano superiore, da tutti gli oggetti di metallo, persino dalle chiavi e dalle medicine, e la paura di essere avvelenato." Schumann si lamentava del continuo ronzio e ruggito nelle sue orecchie, e talvolta per lui era persino doloroso ascoltare la musica. Era diventato frenetico per paura di perdere la testa. I suoi sintomi fisici, ne era convinto, erano il risultato diretto delle sue afflizioni mentali. Invece si era sbagliato.

 

Recenti studi hanno fatto emergere novità intorno alla malattia di Schumann, con scoperte convincenti e rivelatrici. In quei tempi pre-antibiotici, un trattamento comune per la sifilide era una piccola dose di mercurio liquido. Il mercurio alleviava i segni esterni della malattia, ma a costo di avvelenare il paziente, o meglio, la vittima. Schumann, molti anni prima del suo devoto matrimonio con Clara, ebbe sia l'infezione che il trattamento terapeutico. I problemi di cui si lamentava - ronzii alle orecchie, estremità fredde, depressione, insonnia, danni ai nervi - erano il risultato dell'avvelenamento da mercurio. Per quanto sensibile fosse, Schumann prima lo immaginò e poi fu veramente afflitto dagli altri sintomi, fino a quando non si ammalò gravemente nella mente e nel corpo. In verità ebbe a che fare con un insidioso problema fisico che aggravava i suoi problemi psicologici piuttosto che viceversa, come lui credeva.

 


Vista su questo sfondo di patetica sofferenza, la Seconda Sinfonia di Schumann emerge come un miracolo dello spirito umano nelle circostanze più difficili, ben definito con le stesse parole dell'autore: “Ero fisicamente in forma quando ho iniziato il lavoro e temevo che il mio stato di semi-invalido potesse essere rilevato nella musica. Tuttavia, ho iniziato a sentirmi più me stesso quando ho finito l'intero lavoro." Intorno alle basi filosofiche della Sinfonia, senza dubbio legate allo stato emotivo di Schumann, si può dire che il dramma emotivo conduce dalla feroce lotta con forze sinistre energicamente espresse nel primo movimento, all'esultante vittoria del finale; con fasi intermedie di irrequietezza febbrile dello Scherzo a quelle di profonda malinconia dell'Adagio. Questa progressione dalle tenebre alla luce come processo musicale non è nuova, infatti ebbe i suoi nobili precedenti nella Quinta e nella Nona sinfonia di Beethoven, il musicista che Schumann riveriva sopra tutti. Probabilmente Schumann considerava la costruzione della sua seconda sinfonia come uno specchio per il suo definitivo ritorno alla salute durante la sua composizione. Rimane a noi come una delle più alte vette musicali e metafisiche del romanticismo musicale. Una composizione apparentemente chiara ma totalmente enigmatica, nascosta dietro la scrittura di quattro movimenti nella stessa tonalità, in Do maggiore-minore ed una lunghezza di scrittura davvero notevole.

mercoledì 8 aprile 2020

I Berliner Philharmoniker e gli altri, dopo la pandemia.


Da quando il sito web dei Berliner è stato aperto al pubblico gratuitamente, causa pandemia da coronavirus, ho iniziato a ricevere domande da parte di molti miei allievi che, alle prese col tempo da riempire più del solito, si sono dati da fare per scoprire nuove musiche e nuovi interpreti. Diciamo pure che questi "arresti domiciliari" per molti giovani musicisti in fase formativa sono stati un toccasana, perché si sono ritrovati a seguire i suggerimenti di ascolto e lettura che da sempre do a loro.

Chi studia o ha studiato con me sa quanto ritenga importante la conoscenza di un passato dello stile interpretativo, quello della direzione d'orchestra, molto giovane rispetto ad altri come per esempio quello vocale, violinistico o pianistico. Un periodo tutto sommato breve che in altrettanto breve tempo ha subito trasformazioni del tutto particolari rispetto a tutte le altre arti musicali, per il semplice motivo che lo strumento orchestra, non essendo soltanto "fisico" ma anche "metafisico" necessita di un altro esecutore, il direttore, che abbia entrambe le caratteristiche. Un esecutore speciale che riesca ad "accordare" lo strumento secondo un modo "non temperato" che richiede una serie di abilità tecniche, conoscenze di varia natura e umanità, in definitiva ciò che lo definisce persona e musicista. Questa caratteristica, che a molti potrebbe apparire scontata, è alla base di quel rapporto esclusivo che da sempre ha permesso di plasmare il suono delle orchestre da parte di direttori che avevano il tempo e le motivazioni per farlo, non sempre con a disposizione strumentisti di chissà quale levatura tecnica ma in grado di entrare in empatia, anche se non sempre in simpatia, con chi avevano di fronte. I risultati però li conosciamo e oggi, per fortuna, li abbiamo a disposizione in quel gigantesco serbatoio di registrazioni audio e video disponibile online e su cd.

Un musicista che sin dal suo primo periodo formativo sia stato abituato ad ascoltare, oltre che a guardare, si è certamente affinato le orecchie ed ha avuto la possibilità di crearsi un gusto musicale personale rimasto inevitabilmente prigioniero entro i confini della propria sensibilità, educazione ed estetica, caratteristiche sempre in evoluzione, ma che sono anche nel DNA personale, che include o preclude certe caratteristiche: dalla percezione dei colori, dei suoni, degli odori e dei sapori, fino alla sensibilità tattile. Ognuno di noi ha sensibilità differenti e modalità differenti e grazie alle occasioni con le quali si confronterà nella vita, riuscirà ad affinarle o deteriorarle.


Molti dei miei allievi ed ex allievi, decisamente musicali e consapevoli, oggi mi chiedono il perché della trasformazione così evidente del suono delle orchestre. Provenendo da percorsi di differenti studi strumentali, evidentemente non si riferiscono al componente tecnico del quale sono più che consapevoli, ma a quell'unione particolare fra interpretazione ed esecuzione che va oltre la perfezione tecnica e che stranamente riesce a superare i confini del tempo, arrivando come sorta di illuminazione. Ciò che più affascina, è constatare che quelle che io definisco in modo forse improprio "generazioni digitali" ma che quando se ne parla stranamente le trova tutte d'accordo, siano così permeabili a certi modi "antichi" dai quali restano affascinate. Molti di loro, per questione generazionale o altro, non hanno avuto la possibilità né la fortuna di frequentare con assiduità le grandi orchestre del passato e i loro grandi direttori. Ascoltare l'evoluzione (o involuzione, dipende dai punti di vista) di un'orchestra come quella dei Berliner, dagli anni '70 ad oggi, ha risvegliato in loro, per di più in breve tempo, il desiderio di comprendere a fondo una simile trasformazione.

Per decenni molte orchestre furono la proiezione del pensiero del loro direttore. Il più longevo e perennemente stabile fu Ernest Ansermet, che rimase a capo dell'Orchestra della Suisse Romande per ben 51 anni, dalla sua fondazione nel 1918 sino alla sua morte, nel 1969. Praticamente, sotto di lui vissero e morirono almeno due generazioni di musicisti, guerra mondiale a parte. Quel suono particolare, un misto di grazia e forza, di oggettività e di personale, di determinatezza e di fantasia rimane nelle orecchie di chi, come i musicisti e gli appassionati della mia generazione, ebbe modo di ascoltarlo nelle registrazioni miracolose della Decca, dalle prime analogiche e compatte fino alle ultime della gloriosa era stereofonica pre-digitale. Ovviamente, quell'orchestra mantenne ancora per molto tempo quel particolare modo di suonare, anche dopo la morte di Ansermet, passando sotto magiche bacchette come quelle di Paul Kletzki o di Wolfgang Sawallisch. Erano tempi in cui la figura del direttore era spesso simbiotica con la propria orchestra. Una dipendenza reciproca che, al suo cessare, causava un'inevitabile e repentina trasformazione dell'orchestra. Una trasformazione musicale e umana. Fu così per Berlino dopo l'era Furtwängler e pure dopo l'era Karajan, poi molte cose sono cambiate. Insieme al muro di Berlino sono crollate le ideologie e le consuetudini ad esse legate, sono scomparsi modelli e ne sono subentrati altri, sono scomparsi i miti e al loro posto sono subentrate figure miti.


La domanda che mi sono sentito porre dopo alcuni ascolti sul canale digitale della BPhO, o meglio lo stupore espresso dai miei allievi su come l'orchestra dei Berliner sia potuta cambiare così tanto, riguarda la qualità del suono, la sua definizione, la potente dolcezza di un tempo e la perenne aggressività attuale, sia che suonino Beethoven o Shostakovich. Alcuni si chiedono come un già anziano direttore come Kurt Sanderling avesse potuto ottenere un suono completamente differente da quello di Karajan nell'interpretazione della Quarta Sinfonia di Tchaikovsky e di come, nelle esecuzioni più recenti, l'orchestra si sia invece stabilizzata su una sorta di suono di routine, sia che diriga un direttore di un certo calibro, oppure uno normalissimo. La risposta che do, ma che vale anche per altre orchestre, è che l'eccellenza tecnica degli esecutori ed il loro virtuosismo, decisamente maggiore di un tempo, abbia totalmente adombrato altre caratteristiche primarie e necessarie all'interpretazione, come l'espressività, il fraseggio, un pensiero largo e non incasellato secondo schemi che vanno dalle pratiche filologiche all'oggettività estesa ad ambiti che non la richiedono, o viceversa.

Ma ora, dopo questa emergenza pandemica che sta cambiando il mondo (speriamo in meglio) cosa rimarrà dei musicisti, delle orchestre e del loro modo di suonare dopo mesi o anni di inattività? Orchestre come i Berliner Philharmoniker o come la London Symphony, meccanismi autolubrificanti perfetti come un orologio, abituati a suonare sempre e senza pause, come si ritroveranno? Non credo che 30, 50 o 100 musicisti abituati all'assieme, musicale e umano, possano mantenersi identici e riprendere tutto da capo, come se nulla fosse accaduto. A parte la triste prassi del "distanziamento sociale" non applicabile a certi ambiti, come potrà un musicista sedersi accanto ad un collega che magari non sarà più tale perché sostituito? Molte orchestre, molti cori, molti corpi di ballo, gruppi teatrali dopo questa vicenda forse non esisteranno più e i sopravvissuti non saranno certamente in grado di prodursi come prima. Come sarà una fila di primi violini che non suona assieme da mesi? Avrà la stessa energia, il medesimo desiderio di esprimersi come un tempo, breve ma che apparirà lunghissimo e forse interminabile? E come respirerà il gruppo, oppresso da una dispnea di ritorno, forse peggiore di quella causata dal coronavirus? È certo che molti modelli interpretativi cambieranno, per il semplice motivo che le priorità di chi li manifesta non saranno più quelle di prima. Sarebbe assurdo e dannoso riproporre ancora ciò che sino a poco prima si è consumato, spesso in una malata ripetitività indispensabile al business, ma che ora, volente o nolente, dovrà per forza scomparire. Se molte orchestre finora si erano abituate a direttori girovaghi, che con mezza prova preparavano la Seconda di Mahler ("il resto non lo proviamo perché tanto l'abbiamo già suonata mille volte"- frase riferitami da uno splendido musicista che conosco e chiamato in una importante orchestra) ora si dovranno riconfigurare. Gli spostamenti costeranno il triplo o il quadruplo, i cachet permetteranno di andare in un B&B e non all'Hilton, tutto sarà più caro e il lavoro dovrà incanalarsi necessariamente in modalità meno alienanti. Forse avremo finalmente musicisti che, quelle poche volte che viaggeranno, lo faranno con un libro in valigia anziché con gli ansiolitici.
Naturalmente tutto ciò sarà da verificare e comunque riguarda tutti i musicisti, quelli in formazione e quelli in attività, dal piccolo gruppo strumentale alla grande orchestra. Le strade ora non sono molte, perché alla luce degli avvenimenti globali, nel momento in cui tutti abbiamo potuto verificare cosa significhi essere mediocri, ora dobbiamo seguire l'unico sentiero che ci riporterà all'eccellenza, in tutti gli ambiti. Si tratta di seguirla sempre, con pazienza e intelligenza, ma soprattutto comprenderne a fondo il vero significato, perché da molto tempo è stato travisato, da un lato per eccesso di conoscenza e acculturazione, e dall'altro per eccesso di ignoranza, comodità e superficialità. Sarà tutto più faticoso, sicuramente più esclusivo e speriamo certamente più bello.

sabato 7 dicembre 2019

La Cina, l'Italia e tutti gli altri



Considerazione di mera umanità.

Negli ultimi tempi si parla molto dei nuovi mestieri e delle nuove professioni che i giovani dovrebbero intraprendere per essere al passo coi tempi. Si dà per scontato il risultato di un'istruzione di base adatta per aprire le porte ad una vita lavorativa in linea con l'evoluzione tecnologica attuale e futura, però senza tener conto delle caratteristiche di unicità dei singoli individui. Una scuola che sin dall'asilo livella tutti, senza sviluppare le singole doti, senza porre le basi estetiche per la crescita dell'individuo e la sua futura posizione nella società, ne limita fortemente la sua evoluzione e in definitiva lo rende un uomo infelice. Se oggi la scuola dovesse davvero contribuire allo sviluppo dei giovani, senza essere invece quell'enorme ammortizzatore sociale già stigmatizzato da Giovanni Papini poco più di un secolo fa in una grande provocazione ripresa anni dopo da Pier Paolo Pasolini, nella quale si proponeva di chiudere le scuole e tutti gli ambienti e i luoghi chiusi che sopprimono la libertà, la crescita, la fantasia e il libero pensiero, porrebbe le basi definitive per una rivoluzione della società ed un'incrinatura potentissima di tutto il suo spregiudicato apparato economico.

A proposito dei risultati di un recente studio triennale che l'OCSE svolge su studenti quindicenni in tutto il mondo e discorrendo a proposito dell'istruzione cinese, il suo segretario generale ha dichiarato che "la qualità delle loro scuole oggi alimenterà la forza delle loro economie domani". È sicuramente vero, ma abbiamo il dovere di domandarci quali danni possano essere arrecati da un'istruzione a senso unico, proiettata soltanto all'affannoso conseguimento di un risultato utile ad un sistema economico anziché alla costruzione di un'estetica personale, ovvero di una percezione attraverso la mediazione dei sensi. Sarebbe assurdo e insensato importare sistemi educativi che si basano su tradizioni millenarie a noi estranee o tantomeno cercare di copiarli.

La nostra società euro-atlantica di derivazione illuminista, sebbene faccia acqua da tutte le parti, ha ancora nel suo nucleo una forza vitale e spirituale potente, assopita e negletta, ma tutta da riscoprire e rinvigorire. Soltanto attingendo all'antica fonte delle nostre radici filosofiche potremo davvero operare verso un nuovo "Umanesimo", non per riproporre il medesimo del mondo di Petrarca e Boccaccio che fu rivolto alla riscoperta dei classici greci e latini, ma a quello a noi più vicino e riproposto in modo attuale da filosofi come Massimo Cacciari, il quale suggerisce di ricondursi a molteplici linee di ricerca come letteratura, lingua, storia, filosofia e arte, al fine di proiettare una nuova visione su un fenomeno che se a quel tempo dovette apparire sconvolgente sul mondo contemporaneo, certamente incomprensibile ai soli occhi dei singoli, oggi potrebbe rischiarare un orizzonte molto incerto. Sarà forse l'unico modo per sconfiggere la crisi della metafisica occidentale, molto fiduciosa nella tecnica, ma che rivela il concreto fallimento dei veri ­valori che dovrebbero guidare il progresso umano, prima di ritrovarci schiavi di una tecnologia che già da tempo ci ha dato terribili avvertimenti.


Apollo e le muse sul Monte Parnaso – 1760
Anthon Raphael Mengs