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lunedì 29 ottobre 2012

Trent’anni di tentativi per un’educazione estetica non ancora conclusa



A mio Padre, primo Maestro in assoluto
A mia moglie, unica compagna oltre la Musica
Ai miei grandi Maestri, Bettinelli, Ferrara e Gusella 




  
GILBERTO   SEREMBE

MUSICA, Maestro!

Trent’anni di tentativi per un’educazione
estetica non ancora conclusa





Premessa

Questo non è un trattato sulla direzione d’orchestra né sui direttori d’orchestra. Pretende  soltanto  di essere una raccolta di considerazioni sulla Musica e sull’esperienza più che trentennale come docente, pedagogo e educatore di una disciplina, quella direttoriale, che nei decenni si è rapidamente trasformata e che dopo aver smesso un abito  da cerimonia indossato per circa un secolo, ora opera in jeans, ovviamente griffati. Per scelta, non vengono citate esperienze strettamente personali in campo direttoriale, preferendo qua e là un’aneddotica facilmente digeribile e soprattutto comprensibile.
Desidero impiegare tre definizioni di me stesso molto simili fra loro, perché ritengo che ognuna di esse possegga una particolare sfumatura. A seconda dell’attenzione e dell’impegno indirizzati a un giovane, negli anni mi sono imposto inevitabilmente di vestire un abito consono alla persona in questione e al momento particolare.
Durante il mio percorso ho modificato notevolmente il mio approccio all’insegnamento e il modo di rivolgermi a più dei duecento giovani aspiranti direttori incontrati, chi alle prime armi e chi già in attività. Negli ultimi trent’anni le generazioni si sono susseguite molto più rapidamente che nei decenni precedenti. L’ingresso in ogni casa di internet ha trasformato profondamente la sensibilità di noi tutti modificando il nostro modo di pensare e operare e costringendoci a reazioni pressoché in tempo reale. Siamo tutti costretti ormai a tempistiche da primato e abbiamo accorciato i nostri tempi di meditazione e maturazione. Sembra quasi che la riflessione sia diventata un lusso per pochi fortunati che posseggono il tempo a cui dedicarsi. Anche il gusto musicale è mutato rapidamente, talvolta a causa di modelli imposti dal mondo musicale ufficiale e dai mass-media, ma ancor più a causa del mutato stile di vita di noi tutti: mordi e fuggi.
Talvolta il mio scritto potrà apparire pungente o dogmatico, a volte fastidioso, ma quando si discorre di certi argomenti immateriali come la Musica e il mondo ideale a essa connesso, è inevitabile che il discorso possa prendere una piega scomoda e talvolta anche non condivisibile. E’ come quando si instaura una conversazione sulla politica o sulla religione: certe volte è meglio non discuterne ma soltanto ascoltare per poi trarne le proprie conclusioni.

Gilberto Serembe


Musica, amica e nemica.

"La bellezza sola rende felice tutto il mondo, e ogni essere dimentica i suoi limiti fintanto che subisce il suo fascino"
(Dalla lettera XXVII dell' Educazione Estetica dell'uomo di Friederich Schiller)

E’ risaputo che una delle primissime sensazioni avvertite da un bambino appena nato, seppur inconscia, è la percezione di un suono o di un rumore. Essa può condizionarne per sempre il suo sviluppo, in quanto il cervello recepisce sin da subito qualsiasi sollecitazione. E’ indubbio che una piacevole e naturale sensazione uditiva può segnare l’individuo sin dai primi giorni di vita. Già quando è nel grembo materno recepisce una miriade di sollecitazioni attraverso i sensi propri della madre, tant’è vero che tutte le  esperienze vissute durante la gravidanza possono condizionare la salute psico-fisica del nascituro, siano esse di natura psicologica, fisica o bio-chimica. I primissimi mesi sono delicatissimi, perché già con l’armonia e le attenzioni suscitate in ambito familiare egli inizierà a sviluppare la propria capacità sensoriale e soprattutto a formarsi una personale percezione tattile, olfattiva, un gusto per i sapori, i colori e i suoni.
Il percorso di accrescimento e affinamento verso il mondo sonoro, avvenga esso per mezzo di un qualsiasi strumento musicale o anche soltanto grazie alla propria voce, se indirizzato precocemente può sviluppare quella peculiare sensibilità d’orecchio necessaria al futuro musicista e alleggerirlo delle difficoltà tecniche e di comprensione di un linguaggio particolarissimo, perché all’inizio saranno sviluppate come gioco.
Questa caratteristica non vale soltanto in ambito musicale, ma anche in altri campi. Come per l’apprendimento della matematica (anch’esso linguaggio complesso) la capacità di astrazione, comprensione e assimilazione delle basi fondamentali di un linguaggio può essere rapido e facile oppure lento e faticoso. A parità di doti e sensibilità, due individui che iniziano simili studi in età differenti si ritroveranno a percorrere strade differenti, per il semplice fatto che dopo una certa età il declino cerebrale è già iniziato e certe possibilità di assimilazione sono inevitabilmente rallentate.
Si conoscono tantissimi casi, passati e presenti, di bimbi precocissimi in molteplici campi. C’è quello che a tre anni fa calcoli matematici complessi o quello che, essendo cresciuto con le storie ed i libri, impara in seguito a leggere e scrivere più facilmente. È dunque evidente che l’apprendimento della lettura di un qualsiasi simbolo inizia molto prima dell’ingresso in una scuola. I bambini stimolati molto presto a livello del linguaggio hanno certamente alcune potenziali caratteristiche tali da trasformarli prestissimo in “outsider”.
In campo strettamente musicale, se certe peculiarità possono emergere precocemente grazie a queste attenzioni verso lo sviluppo del bambino, il pericolo è che anche dopo anni esse rimangano imprigionate in quella fase ludica primaria che, anziché maturare armoniosamente assieme all’individuo, lo costringe in una sorta di “limbo” dal quale egli non riesce più a evadere per mancanza di ulteriori stimoli naturali, sensoriali, intellettuali e sociali. Ed ecco allora che l’ “enfant prodige” che in poco tempo aveva impressionato con le sue capacità straordinarie, inizia una sorta di stasi a volte lunghissima, a volte inarrestabile o perenne.
Chi è addentro l’ambito musicale avrà certamente conosciuto artisti più o meno giovani con spiccate caratteristiche di eccezionale abilità tecnica, memoria prodigiosa, repertorio sconfinato. In quasi tutte le discipline musicali possiamo incontrare personaggi che il senso comune ci porta a definire “straordinari” grazie alle loro prestazioni tutt’altro che comuni e impraticabili dalla maggior parte degli ottimi musicisti in circolazione. Di sovente, ognuno di questi abili artisti ha sviluppato una personale tecnica di memorizzazione, una “mnemotecnica” già conosciuta dagli antichi. Si tratta di un tecnica adoperata per memorizzare rapidamente e più facilmente concetti o entità difficili da ricordare. Essa sfrutta la naturale capacità dell'uomo di ricordare molteplici informazioni nel momento in cui sono trasformate in immagini o storie, consentendo di aumentare notevolmente la capacità della memoria.
Molti artisti si avvalgono di questa tecnica per poter disinvoltamente immagazzinare un’enorme quantità di nozioni e poter così avvantaggiarsene nello studio e nella memorizzazione delle composizioni musicali. Soltanto per fare un nome da tutti conosciuto, Dimitri Mitropoulos, noto per la prodigiosa memoria musicale: egli era solito farsi consegnare prima dell’inizio delle prove l’elenco dei professori d’orchestra, al fine di poterli interpellare singolarmente durante le prove. Si racconta che un giorno un musicista non fosse presente per un’improvvisa indisposizione e che il suo sostituto, una volta interpellato, non rispondendo causò un certo disagio al Maestro. Sfortunatamente, queste abilità non sono alla portata di tutti. Richiedono quella capacità d’astrazione difficile da sviluppare se non si è iniziato sin da giovani. Come il gioco degli Scacchi, che richiede intuizione strategica e abilità tattica, anche il gioco della memoria si basa su intuizioni, previsioni e immaginazione. In età adulta diventa tutto più complicato e il “puzzle”, facile o complesso che sia, arduo da ricomporre.
I musicisti più fortunati perché in possesso di questi requisiti, possono però incontrare lacune nella memorizzazione musicale pura. Il pensiero armonico e contrappuntistico alla base della composizione musicale, che dovrebbe essere il principale supporto alla capacità d’apprendimento, è spessissimo sostituito da una memoria di tipo “associativo” e da una di tipo “muscolare”. Quest’ultima è spesso necessaria per rendere indipendente il pensiero dall’attività puramente fisica dell’esecutore. Brani di notevole complessità tecnica possono essere eseguiti disinvoltamente grazie all’automaticità del movimento che altrimenti potrebbe essere compromessa per la preoccupazione del pensiero musicale stesso. Una volta superate queste difficoltà, l’esecutore ha ottime opportunità per poter navigare serenamente nelle acque agitatissime della professione, dove però gli stress emotivi sono ricorrenti e a volte fatali, capaci di compromettere all’improvviso e definitivamente fulgide carriere già precocemente avviate. La capacità di mantenere un equilibrio psico-fisico è alla base di molte attività umane e quella artistica del musicista, sempre sollecitato perché sotto stretta osservazione, è fra le più delicate. I motivi per cui anche dopo anni di professione un artista può improvvisamente interrompere l’attività sono molteplici. Alcuni possono derivare da inattesi e sfortunati incidenti di percorso oppure altri, sepolti da tempo e radicati nei meandri più reconditi della sfera emotiva, da una mancata realizzazione della persona, prima ancora che del musicista. L‘educazione artistica ricevuta, e qui mi riferisco alla globalità dell’esperienza trascorsa durante gli anni di formazione e apprendimento, è determinante per lo sviluppo armonioso di un giovane. Molti aspetti relativi alla formazione dell’individuo sono spessissimo  trascurati da chi ha nelle proprie mani il futuro di un giovane musicista. In modo più o meno volontario, la sfera che riguarda lo sviluppo della persona “al di là delle note” sembra che non riguardi il docente; né più né meno di un padre che si limiti a portare a casa lo stipendio e deleghi in toto ad altri l’educazione del proprio figlio.

Questa lunga e varia premessa mi serve come punto d’arrivo e come partenza per un percorso a ritroso. Ovviamente le mie considerazioni derivano da una personale esperienza trentennale e dall’osservazione di diverse generazioni di musicisti: allievi, ex-allievi diventati poi colleghi, artisti conosciuti personalmente e altri osservati più o meno da vicino. Le confidenze ricevute in più di un’occasione dai giovani e l’incontro con musicisti che a loro volta hanno attraversato le pesanti problematiche derivate da anni di fatica psico-fisica, prima durante l’apprendimento e poi dall’ingresso nel mondo musicale “ufficiale”, mi sono servite per una dissertazione intorno a quell’ “Educazione Estetica” indispensabile per intraprendere un cammino perennemente in salita e faticoso sotto molteplici aspetti.
Personalmente ho avuto la fortuna di incontrare ottimi insegnanti, alcuni di loro anche grandi Maestri. Una sottile differenza che soltanto negli anni ho potuto comprendere a fondo e che mi è stata d’aiuto, prima per comprendere me stesso e il mio percorso, e poi per affinare un certo intuito indispensabile nell’insegnamento di una disciplina musicale, quella della Direzione d’Orchestra, che può essere esemplificata in due  minuti oppure richiedere intensità, sforzo, pazienza, determinazione e ovviamente passione infinita.




La Sinfonia “Pastorale” è in Fa Maggiore?

“Maestro, ma la sesta di Beethoven è in due o in uno? Devo togliere la corona o tiro dritto? E il metronomo? Sa, tizio fa così e caio cosà. Al corso estivo il maestro ci diceva che in quel punto si deve dirigere in questo modo perché qui accade questo e perché là accade quest’altro”.

Ecco le strazianti domande che da trent’anni mi sento rivolgere in occasione dello studio di una partitura. Sia essa di Beethoven o di Stravinsky, le domande son sempre le medesime. Per carità, del tutto lecite dal punto di vista della sintassi e dell’ordinaria amministrazione, ma esse fanno palesemente comprendere il tipo di educazione musicale ricevuta in anni di studio e frequentemente denotano la pressoché assoluta carenza di legami con quel mondo interiore, particolarissimo e assoluto senza il quale è impossibile oltrepassare il confine della grammatica musicale. Se queste lecite domande possono essere evase in breve grazie ad ancor più semplici risposte, le risposte sostitutive alle “non domande” sono quelle più faticose e dolorose da dare. Sfortunatamente capita di discorrere in modo genuino e ritrovarsi di fronte a interlocutori completamente spiazzati dalla semplicità e dall’ovvietà delle asserzioni. In quel momento si avverte il medesimo disagio che tutti abbiamo provato, almeno una volta nella vita, quando ci siamo resi conto della nostra inconsapevolezza di fronte all’ineluttabilità degli eventi. Talvolta mi sono sentito a disagio nel rispondere a domande ingenue, se non totalmente inutili, e ricevere in cambio stati di stupore del tipo “Ah, ma non sapevo che prima o poi tutti passiamo a miglior vita!”…
Negli anni ’80 negli USA fu condotta un’indagine nelle scuole primarie delle grandi metropoli per conoscere il rapporto esistente fra i fanciulli e il mondo a loro conosciuto, soprattutto per analizzare la loro effettiva comprensione del mondo esterno. Fra le molte rivolte, alla domanda “Avete mai visto un pollo?” la maggioranza rispose più o meno in questo modo: “Sì, ogni sabato con mamma al supermarket, sfilettato e impacchettato sugli scaffali”. Ecco, il rapporto di questi bambini col mondo esterno è simile a quello di molti giovani musicisti in rapporto al mondo sonoro. Proviamo a chiedere: avete mai incontrato Beethoven?
Si racconta che durante un colloquio per l’ammissione a un corso col grande Sergiu Celibidache, alla domanda del Maestro: “Secondo lei, dov’è la Quinta Sinfonia di Beethoven?” un candidato avesse risposto in modo più o meno scherzoso che si trovava sullo scaffale in alto a destra della libreria di casa.  A parte la risposta, forse eccessivamente fuori luogo considerata la situazione formale, la domanda del Maestro, che implicitamente richiedeva una risposta “filosofica”, aveva e ha tutt’ora un suo significato importante.
Già, dov’è la Musica? Possiamo tranquillamente asserire che la Gioconda di Leonardo è esposta al Louvre o che La Pietà di Michelangelo è conservata nella basilica di San Pietro, ma difficilmente possiamo collocare nel tempo e nello spazio un qualsiasi brano musicale, per il semplice fatto che esso “prende forma e vita” soltanto nel momento in cui viene eseguito. La nostra memoria uditiva può ricreare vagamente la composizione, ma non può altro che definirla in un concetto di forma astratta. Anche il più abile musicista, se non coadiuvato da uno o più strumenti o almeno dalla propria voce, è impossibilitato in quella ri-creazione dell’opera d’arte, seppur di tipo ideale, che invece è possibile per l’arte figurativa grazie al nostro senso visivo. Anche la sola lettura mnemonica di una partitura da parte di un eccellente e dotato direttore d’orchestra, non può minimamente ricreare la composizione. Nel migliore dei casi sarà una sorta di “deja vu” o meglio, “deja ecouté”, comunque lontano dall’effetto di una vera orchestra che vive quel particolare e unico momento.
Sfortunatamente il musicista esecutore è soltanto un tramite fra l’opera d’arte e l’ascoltatore. I più disagiati sono i cantanti perché il risultato del loro sforzo di apprendimento e il risultato musicale raggiunto può essere controllato in buona parte soltanto grazie all’ascolto endosseo. Un violinista, un pianista o un direttore d’orchestra riescono invece a controllare meglio la loro opera di ri-creazione grazie all’ascolto diretto che sarà comunque percepito in modo differente da ogni ascoltatore. Infatti, come per la sensibilità verso i colori che fa risaltare un rosso o un giallo in modo più evidente, anche per i suoni i sensi umani reagiscono in modo diseguale. C’è chi ha una spiccata sensibilità per le frequenze acute e chi per quelle medio-basse, chi percepisce perfettamente tutte le frequenze e chi, al di sotto una soglia uditiva, è quasi sordo. Ovviamente questi sono casi limite, ma che sottolineano quella diversità di reazione alla varietà degli stimoli visivi o sonori che contraddistingue ognuno di noi.
La differente percezione e conseguente intuizione di un brano musicale è legata a diversi fattori. Si è accennato nell’ introduzione all’importanza dei più svariati stimoli durante il nostro accrescimento. Anche quei comportamenti che a livello sociale sono considerati “negativi” costituiscono parte integrante nella formazione dell’individuo e del futuro artista. Qui non scivolerò certamente in considerazioni riferite alla “moralità della persona” comunemente intesa perché devierei inevitabilmente su questioni concernenti esclusivamente la sfera intima e il proprio modus vivendi. Non si contano i casi di artisti nelle più svariate  discipline che nel loro privato erano lontani anni luce dalla grandezza delle loro opere.
Invece, è importante sottolineare quanto la Musica non possa vivere autonomamente se non è alimentata da una svariata serie di sensazioni e stati d’animo: intuizioni, desideri, immaginazione, stupore, innocenza, aggressività, consapevolezza, estasi. Potremmo andare avanti all’infinito, ma la Musica, contrariamente a quanto si possa credere e per come avviene nelle altre arti, è riposta soltanto in queste inclinazioni indispensabili a sublimare la tecnica conquistata in anni di sacrifici, sia essa compositiva o esecutiva. Senza questa sublimazione sopravvive come arida grammatica, tutt’al più come un articolato artificio cerebrale, un esclusivo esercizio intellettuale. Per questo motivo la “Sinfonia Pastorale” può essere soltanto in Fa maggiore, tonalità di suoni e colori che racchiude al suo interno sensazioni e emozioni particolari. Non è una sinfonia “eroica”, per cui Beethoven non avrebbe mai e poi mai potuto scriverla in Mi bemolle Maggiore.




Di che colore è la “Sinfonia Pastorale”? Che suono ha “Guernica”? Che odore ha “Uomini e Topi”?

La tonalità di una composizione musicale equivale alla tinta fondamentale di un’opera figurativa o al ritmo di un brano letterario. In ognuna di queste opere traspaiono colori, suoni, profumi, sapori. Un’opera di Proust ha tutte queste particolarità, esattamente come la Sinfonia Pastorale di Beethoven. Un dipinto come Guernica di Picasso è rumorosissimo, con i suoi urli disperati e laceranti e nel romanzo di Steinbeck Uomini e Topi è impossibile non percepire l’esalazione amara della morte. Queste comuni e a volte meno evidenti caratteristiche dell’opera d’arte, in quanto esercizio trascendente e non razionale, in Musica rappresentano quella parte nascosta e più difficile da rivelare durante un’interpretazione. Anche la più abile e riuscitissima delle esecuzioni da parte di un virtuoso dello strumento o della bacchetta può lasciare a bocca asciutta per mancanza di profondità e per carenza di spessore interpretativo. Quest’ultimo può sussistere anche in carenza di requisiti “virtuosistici” in quanto si basa su presupposti meno tangibili rispetto alla concretizzazione fisica dei suoni. Molti interpreti passati e odierni, racchiudono quelle unicità tali da renderli differenti da altri, grazie all’ampiezza di un pensiero musicale non imprigionato in un rigido ambito tecnico. Possiamo affermare che gli interpreti più straordinari sono quelli che riescono a evocare le sensazioni più intime delle composizioni e unirle sensibilmente a quelle personali esperienze alle quali accennavo precedentemente. Il mezzo attraverso il quale il musicista riesce ad arrivare al più elevato risultato, è ovviamente imperscrutabile e tale è bene che rimanga. Sarebbe come conoscere già in anticipo il trucco di un abile illusionista...
La complessità dell’interpretazione non è detto che si trovi in rapporto stretto alla complessità della composizione. Brani per “bacchette virtuosistiche” come Sagra di Primavera di Stravinsky o Tanz Suite di Bartok, nella loro oggettività della struttura musicale alleggeriscono l’esecutore di quel carico interpretativo “ricco di storia” legato ad esempio al periodo classico o romantico. In questo caso subentra un differente impegno tecnico da parte del direttore che dovrà invece essere in grado di avvicinarsi a simili complesse costruzioni nel modo più semplice e razionale per evitare le infinite difficoltà esecutive temute dagli esecutori, ad iniziare dalla propria imperturbabilità e da un razionale autocontrollo indispensabili alla conduzione di simili partiture. Come per i pianisti, il mondo del virtuosismo in quanto padronanza assoluta di tecnica “fisiologica” è riservato a pochi. I più grandi interpreti delle più svariate discipline musicali, ma dotati di saggia autocritica perché oggettivamente limitati, si sono sempre ben guardati di avvicinarsi a composizioni impossibili per la loro limitata abilità puramente tecnica.
Se per certe composizioni esiste un’ evidente difficoltà d’approccio a causa delle difficoltà tecniche, per altre decisamente più abbordabili sul piano esecutivo esistono complessità interpretative che non tutti i musicisti  riescono a focalizzare e risolvere. Non per una mancanza di “background” tecnico, bensì molto spesso per quella mancanza di “feeling” con quel particolare autore o periodo storico. L’interpretazione di una sinfonia di Brahms, non solo presuppone la conoscenza dello stile e la padronanza della partitura in quanto tale, ma soprattutto quel tipo particolare di respiro, di afflato indispensabili al compimento della ri-creazione dell’opera. Il raggiungimento del “climax” in quel particolare punto della composizione è compiuto quando l’interprete riesce a unire la visione “strutturale” di essa alla propria “Weltanschauung”, termine tedesco non traducibile e che esprime un concetto di pura  astrazione definibile semplicemente, anche se non appieno, come "visione del mondo".

  


Estetica e Conoscenza

“La più bella sensazione è data dal lato misterioso della vita. È il sentimento intenso che sempre si trova nella culla dell’arte e della scienza pura. Chi non è più in grado di provare né stupore né sorpresa è per così dire morto; i suoi occhi sono spenti … Sapere che esiste qualcosa di impenetrabile, conoscere le manifestazioni dell’intelletto più profondo e della bellezza più luminosa, che sono accessibili alla nostra ragione solo nelle forme più primitive, questa conoscenza e questo sentimento, ecco, in ciò consiste la vera devozione. In questo senso, e soltanto in questo senso, io sono fra gli uomini più profondamente religiosi.”

Così si esprimeva Albert Einstein in quella mirabile raccolta di riflessioni scritte dal 1934 fino al 1955, anno della morte, dal titolo “Come io vedo il mondo”.
Prendo spunto da queste straordinarie pagine che sin da fanciullo ebbi la fortuna di leggere assieme a mio padre in quegli indimenticabili momenti che restano impressi nella memoria come se fossero scolpiti sulla pietra. Conservo ancora da qualche parte quel volumetto color carta da zucchero che egli custodiva come un preziosissimo cimelio. Le considerazioni di Einstein sul lato misterioso della nostra vita, sull’indispensabilità di certe sensazioni dell’animo umano, sin da subito hanno segnato profondamente il mio modo d’essere e ovviamente il mio atteggiamento di fronte alla Musica in quanto “unicità”.
Quando da giovanissimo iniziai per interesse personale a occuparmi innocentemente di letture filosofiche, mi colpì molto un pensiero del grande matematico e filosofo Leibniz: “Ascoltare la musica equivale alla nascosta attività aritmetica di un animo che non è consapevole di effettuare un calcolo, ma che ne percepisce il risultato in termini di piacevolezza". Per Leibniz la musica possiede una salda struttura matematica, ma non contrastante col fatto che essa si rivolge anzitutto ai sensi, rivelandosi unicamente nel momento stesso in cui viene percepita sensibilmente. Essa si manifesta in larga misura in percezioni confuse e quasi inavvertite che sfuggono alle percezioni più chiare. Questo concetto fondamentale, necessario per comprendere e condividere quello spirito che dovrebbe animare l’esecuzione musicale, manifesta quella specificità di “sublimazione” del procedimento tecnico accennato precedentemente, essenziale alla riuscita del risultato artistico in senso di perfezione. E’ un concetto acuto e al contempo semplice da comprendere e condividere anche per una mente giovanissima, ma presuppone quell’apertura al “bello” e all’ “estetico” che appartiene in buona parte alla sfera della propria sensibilità e interiorità, due caratteristiche che possono e devono essere ininterrottamente perseguite e affinate.
Quando si parla di estetica è come parlare di religione. E’necessario chiarire su quali concetti ci si esprime. Nel caso della religione, tutte le volte che mi è sfortunatamente capitato di parlarne, dopo un po’ ho dovuto mio malgrado chiedere al mio interlocutore se si stava conversando di filosofia, teologia, teoretica o fede. Anche nel caso dell’estetica, dipende da dove si parte. Se iniziamo dall’argomento filosofico, allora siamo già fermi. Pensiamo alla dottrina kantiana del bello. Il suo fraintendimento a opera di Schopenhauer e di Nietzsche non ha ancora cessato di produrre altri equivoci in ambito filosofico. Kant si esprimeva semplicemente asserendo che  "bello" è ciò che piace soltanto in modo puro, "senza interesse". Per Schopenhauer si identifica nella sospensione della volontà e in Nietzsche, secondo un modello contrapposto, "bello" diviene “ebbrezza”, ossia esattamente il contrario di ogni "piacere disinteressato". In Kant l'espressione "piacere disinteressato", non ha alcuna  intenzione d’indicare un'indifferenza verso l'ente in questione, ma al contrario, ne è una rivalutazione. Il termine "interesse" ha un significato negativo perché indica ciò che può distoglierci dall'individuazione del bello in quanto tale, per cui solo dopo aver rimosso ogni "interesse", possiamo cogliere l'oggetto al suo particolare livello, nella sua dignità e quindi nella sua bellezza.
L’insegnamento della Musica, o meglio, la trasmissione di un pensiero estetico da parte dell’educatore, può iniziare da subito. Dovrebbe avere inizio con la “conoscenza” di quei principi-valori assoluti che ne fanno parte integrante nella sua intangibilità e sacralità. Si dovrebbe avviare con quel processo di umiltà, rispetto e sottomissione ad un mondo, appunto intangibile, che può vivere soltanto ad opera dell’esecutore, ma che può anche morire a causa di esso e della sua insipienza. Pensieri d’eccellenza come quelli sopracitati possono diventare parte integrante dell’insegnamento musicale sin dagli inizi, ma è indispensabile che essi trovino un terreno fertile, non inquinato e soprattutto un buon seminatore.
L’ostacolo più pericoloso per un giovane che si appresta ad assimilare i rudimenti dell’arte musicale è incorrere in quell’aspetto “facile” e “ludico” che ovviamente tutto nasconde e tutto palesa. Riuscire a trasmettere quella capacità di giudizio estetico utile alla comprensione della propria opera da parte di un abile docente non è cosa facile e nemmeno  scontata. Richiede un’attenzione particolare all’individuo nella sua totalità e ovviamente una riposta reciproca fiducia. Quest’ultima è forse la più difficile da ottenere perché, come la fede, si presuppone che dovrebbe essere cieca e pura. Nel momento in cui essa apparisse compromessa anche semplicemente a causa di un’incomprensione, significa che il dubbio scaturito nell’allievo, di per sé necessario alla sua crescita, dovrà essere sì compreso con grande umiltà e intelligenza dal docente, ma risolto con abilità e limpidezza di pensiero dall'allievo. I condizionamenti ricevuti da un’educazione “parallela” impartita in famiglia o a scuola sono spessissimo il principale intralcio al delicato compito del maestro, l’unico vero “sacerdote” in grado di trasmettere quella “religiosità” alla quale Einstein genuinamente si riferiva in rapporto alla ricerca della “bellezza più luminosa”. La volontà e l’attitudine al discernimento, la capacità continua di distinguere fra la “bellezza pura” e libera da ogni interesse può aversi, appunto come diceva Kant, anche soltanto in un semplice giuoco di forme, in cui si attui l'armonia del pensiero col senso, anche senza alcun significato, come accade ad esempio in natura. Ammirando un panorama mozzafiato o l’ornamento di un fiore possiamo esprimerci soltanto in termini particolari quali: sublime, delizioso, meraviglioso, straordinario, sorprendente, divino. Difficilmente potremmo esprimerci con parole del tipo: interessante, singolare, notevole, come se fossimo ad una mostra di pittura contemporanea. Quando si è di fronte all’universale, ogni parola è vana e il silenzio è oro. 



La prima ricerca della perfezione

"Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza"

La celebre terzina del canto ventiseiesimo dell’ Inferno è un condensato della multiforme personalità di Dante, per il quale la vera conoscenza era il punto di partenza per la valutazione di una persona. L'ansia di ricerca spinta al punto più estremo come affermazione di grandezza, in Dante diviene il peccato che condanna il semidio per aver ignorato i limiti dettati alla natura umana. Essa ci è connaturata e come tale pensiamo sia la parte più scontata di noi tutti; forse, per questo motivo,  è al contempo la più difficile da scoprire, a iniziare da noi stessi e, a seguire, dal prossimo. La storia dell’umanità ci insegna che il cammino verso l’ideale “perfezione”, tentativo anelato anche dagli uomini dalla più alta levatura morale, riserva ostacoli, tranelli e fraintendimenti di ogni sorta. Sin dalla nascita, il nostro quotidiano apprendimento è condizionato dalla trasformazione degli avvenimenti e dalla nostra più o meno adeguata e limitata volontà di modificarli a nostro beneficio. Ne subiamo traumaticamente le conseguenze quando pensiamo che una “regola” sia di per sé sufficiente per aggiustare tutto e subiamo i più devastanti effetti quando realizziamo di averne frainteso gli ammonimenti.
Quando un giovane musicista, dopo i primi rudimenti necessari al suo “svezzamento”  si appresta a compiere i primi passi nella figura di interprete, anche a soli sei o sette anni nelle sue prime esibizioni di fronte a mamma e papà, è oggetto di attenzioni particolari che lo pongono suo malgrado su un piano di adorazione. Un po’ per il normale affetto dei genitori, un po’ per la sua abilità nel realizzare cose non comuni che a occhi e orecchie normali lo fanno apparire come prodigio. E’ il momento più delicato per il bambino perché il minimo errore di valutazione da parte del maestro può rivelarsi fatale, soprattutto nel caso di quei piccoli fallimenti necessari alla crescita e che possono essere ingigantiti a dismisura, peraltro senza averne motivazione.
Non si contano i casi di fanciulli normalmente dotati che potrebbero continuare serenamente il percorso musicale, ma che improvvisamente abbandonano lo studio, apparentemente senza alcuna motivazione. Capita che la rinuncia si manifesti per una subentrata mancanza di compartecipazione emotiva col maestro, figura evidentemente in contrasto con quella genitoriale. Nel suo delicato compito di trasmettere al discepolo una materia fisicamente tangibile e al contempo evanescente, ha la responsabilità di “radiografarne” la figura al fine di poter mirare le sue particolari “cure” al meglio. Non si tratta di essere guru o esperti pedagoghi, bensì di possedere quella particolare e indispensabile attitudine che è la capacità di persuasione finalizzata ad alleviare difficoltà, incertezze e rinunce premature. In vita mia ho incontrato maestri incapaci di esplicare su questioni tecniche, ma meravigliosi nel dipanare dubbi esistenziali soltanto con due parole mirate, fossero esse su questioni musicali, comportamentali o quant’altro. Il compito dei genitori è altrettanto delicato perché presuppone una larghezza di vedute e una capacità di giudizio scevra da prevenzioni.  In quasi trentacinque anni d’insegnamento mi sono imbattuto in genitori che erano persone semplici e inesperte, ma con un gran buon senso e un’intelligenza particolarissima verso l’educazione dei figli musicisti. Questi ultimi si sono sviluppati armoniosamente, al contrario di altri più sfortunati precocemente spinti verso il baratro dell’esibizionismo a causa delle grossolane ambizioni dei genitori. Nei casi migliori essi sono prematuramente scomparsi dalla circolazione, perlomeno evitando futuri danni a sé stessi e alla Musica, ma molti altri sono ancora affannosamente in attività, sopravvivendo alle mille difficoltà di una professione che facilmente può distruggere prima l’uomo e poi il musicista o, all’opposto, migliorarlo e elevarlo verso i più alti vertici di perfezione, non solo tecnica.
Non appena il giovane musicista è in grado di correre da solo, una volta svincolatosi dalle sicurezze ricevute in ambito scolastico, inizia il difficile cammino verso la professione. Impiego questa parola, ma  non mi è mai piaciuta, in quanto l’artista vive ogni secondo della propria vita in simbiosi con il suo mondo ideale che corrisponde quasi totalmente a quello concreto. Altri esercizi umani possono essere tranquillamente separati dalla vita reale, in quanto non presuppongono impegni di tipo emotivo o esistenziale. In Musica, invece, è tutto differente e a seconda del percorso intrapreso la propria vita può facilmente assumere l’aspetto di un meraviglioso sogno o di un perenne incubo.
Le genuine aspirazioni giovanili, possiamo dire le illusioni di un mondo idilliaco dove vige esclusivamente la bellezza dell’arte e un suo riconoscimento ideale a opera dei musicisti e dei suoi cultori, scemano precocemente e capita che siano sostituite da insoddisfazioni, sofferenze, fallimenti e purtroppo nessuno è immune da questi incerti. L’unico modo per sopravvivere a tutti gli imprevisti che costellano la vita artistica è mantenere un equilibrato stile di vita psico-fisico, iniziando dal conoscere a fondo sé stessi e riuscire nel tempo a evolvere grazie alle esperienze vissute operando una continua auto-analisi. Prima di rivolgersi allo specialista è forse bene rivolgersi a noi stessi, ovvero al medico più vicino a noi e meglio conosciuto. I comportamenti individuali, dettati dalla propria indole e dagli eventi remoti che hanno segnato il proprio carattere e sviluppato la personalità, necessitano di una continua verifica e di un continuo progresso. E’ un percorso in salita perché richiede il massimo equilibrio da mantenere di frequente in condizioni poco ideali: stress continuo, affaticamento psicologico, superlavoro, viaggi continui.
Non si pensi che questa situazione riguardi esclusivamente gli artisti in grado di esercitare l’attività  in modo permanente grazie alla propria bravura e a circostanze fortunate, si tratti di un solista o di un buon professore d’orchestra. Riguarda anche chi, per le più svariate motivazioni e scelte personali, opera in modo discontinuo. Abbiamo conosciuto  grandi artisti che si esibivano pubblicamente col contagocce; due nomi per tutti: il pianista Arturo Benedetti Michelangeli e il direttore d’orchestra Carlos Kleiber. Ciascuno con le sue motivazioni, per scelta e ove possibile, operava soltanto in condizioni ideali. Per Kleiber le condizioni ideali erano essenzialmente legate al clima di serenità nel quale doveva operare. Un minimo inconveniente, magari svincolato dall’ambito strettamente professionale, era capace di fargli annullare un concerto o una recita anche all’ultimo istante. La sua ipersensibilità era qualcosa di patologico, molto vicina alla nevrosi e frequentemente devastante. D'altronde, per un musicista che passava notti insonni per decidere se l’ottavino doveva suonare staccato o portato, è più che comprensibile. Nel caso di Benedetti Michelangeli, la motivazione per cui annullasse anche all'ultimo i concerti non era un semplice capriccio, ma  una totale dedizione alla Musica: suonava solo ciò che era consapevole di conoscere alla perfezione e quando era sicuro di poter donare al pubblico il meglio di sé.
Questi sono casi limite, ma ci fanno comprendere la differenza sostanziale fra il “suonare” o il “dirigere” e il “far Musica”. Sono modelli eccezionali, non copiabili ma soltanto anelabili nella loro più elitaria essenza. Esempi straordinari di devozione alla Musica che devono servire da faro per illuminare una strada irta di ostacoli e angosce. La comprensione precoce di queste differenze può certamente coadiuvare il giovane musicista, anche  se già in carriera, nel passaggio dalla sfera disimpegnata dell’azione a quella più profonda e positiva di una parallela manifestazione spirituale senza la quale, a ogni livello, la Musica inaridisce e muore. 



“Ego”, ergo sum …

"Cogito ergo sum", l’espressione latina "Penso dunque sono", è quella con cui Cartesio esprime la certezza indubitabile che l'uomo ha di sé stesso in quanto individuo pensante. Se per Agostino il dubbio era espressione della verità e significava la capacità di dubitare in presenza di una verità trascendente che rende possibile il pensiero, per Cartesio invece, è la verità a scaturire dal dubbio.  Il musicista vive perennemente in questa condizione incerta ed è bene che sia così. Il dubbio è il primo passo verso quel perfezionamento estetico che permette di approdare ad una personale e esclusiva verità.
L’interpretazione musicale è un concentrato di dubbi e verità. La sua manifestazione si riaggancia inevitabilmente a falsarighe antecedenti e scorre in salita lungo un solco già tracciato in precedenza. Non è possibile scostarsi da questo percorso più di tanto perché è delimitato da mura alte e spesse, difficilmente valicabili. Ogni tanto fra le mura si possono scorgere alcune brecce e per far sì che il tempo non le consumi più di tanto, chi è geniale ha successo nel rinforzarle con nuova malta. Chi non riesce a muoversi lungo questo percorso, preferisce uscire da una breccia e percorrere  una strada inesplorata. Pochissimi però azzeccano quella giusta.
Durante il mio percorso d’insegnamento ho cercato e cerco tutt’ora di far comprendere ai miei allievi, giovani e meno giovani, che la Musica è normalmente padrona di sé stessa, nel senso che non ha bisogno più di tanto di un pesante intervento da parte dell’interprete. La vera interpretazione si muove in equilibrio fra i modelli del passato, i tentativi di rigenerazione di essi e l’inevitabile intuizione personale. A seconda delle inclinazioni dell’artista, quest’ultima può presentarsi genuina oppure artificiale. Non entro in disquisizioni circa la più o meno solida conoscenza dello stile e delle precedenti e valide interpretazioni, le do per scontate perché le considero doverosamente  già espletate da parte del giovane musicista. Capita però di trovarsi di fronte a sperimentazioni che disgraziatamente non trovano alcun legame col pensiero dell’autore.
La conoscenza di una partitura e soprattutto la sua assimilazione è legata alla predisposizione del musicista verso un particolare pensiero musicale. Il suo possesso sintattico, che può avvenire in pochi giorni o in alcuni mesi a seconda delle abilità mnemoniche del direttore, non è qualità esclusiva per la sua comprensione. Il grande Leonard Bernstein raccontava che aveva sempre avuto problemi nella memorizzazione di una sezione particolare di una sinfonia del repertorio romantico, nonostante in vita sua l’avesse diretta numerose volte. Questo fa comprendere che anche in presenza di predisposizioni tutt’altro che comuni, è possibile incorrere in difficoltà d’ apprendimento. La sintonia con un certo pensiero compositivo richiede quella peculiare, intima e incondizionata complicità con la storia personale dell’autore. Conoscere alcuni intimi particolari della vita di un musicista, ci può improvvisamente illuminare su alcune modalità interpretative anche di una sola battuta.
L’umiltà nell’avvicinamento all’opera musicale è alla base dell’onestà del risultato interpretativo. L’ “ego” smisurato di  molti direttori d’orchestra riesce frequentemente ad annientare lo spirito più profondo di una composizione. La ricerca di effetti o il ricorso alle “regole” filologiche esagerate ad opera di musicisti poco propensi alla naturalezza, sono capaci di vanificare il vero messaggio del compositore procurando la frantumazione dell’idea musicale e il conseguente allontanamento dalla sua originalità. Quando ho occasione di ascoltare un allievo alle prese con una sinfonia del repertorio classico o romantico, mi aspetto che prima o poi incorra in certe insidie tipiche di quel particolare autore. Solitamente è per quella mancanza di “respiro” indispensabile all’esecuzione musicale; si tratti di Mozart, di Beethoven o Brahms, il respiro, ovvero il fraseggio,  si rivela quasi sempre inadeguato.
Ogni autore ha un suo particolare respiro: quello di Beethoven è corto, concentratissimo, quello di Brahms ampio e al contempo intimo, quello di Debussy conciso e determinato. Se Tchaikovsky si riconosce per un respiro largo e cantabile, quello di Ravel è contraddistinto da una luminosa densità. Il respiro è il segno distintivo e primario dell’autore. E’ la fusione dei due elementi strutturali principali di una composizione, l’agogica e la dinamica. Grazie a essi vive e si trasforma all’interno della partitura mutandone il carattere, ma mantenendone l’idea musicale. L’allontanamento da questo segno distintivo fa sì che la composizione si snaturi e si trasformi in   qualcos’ altro. L’impotenza di certi interpreti si palesa nel momento in cui si ascoltano affermazioni del tipo: “La mia esecuzione brahmsiana ha un’impronta classica” oppure “Il mio Tchaikovsky ha un carattere francese”. Ci manca il Wagner intimo e poi siamo a posto.
Ovviamente, l’ingenuità di un giovane direttore è giustificabile. Gli si perdona anche l’ ”ego” sovrabbondante tipico dell’età. Meno perdonabile è  l’irresponsabilità di chi ha preteso d’insegnarli l’arte direttoriale perdendosi in disquisizioni di banale tecnica gestuale senza preoccuparsi di educarlo al buon gusto musicale e a un onesto rispetto del testo. 




“Ama la verità ma perdona l'errore” (Voltaire)

Franco Ferrara, il grandissimo direttore d’orchestra e Maestro di noi maestri, non amava parlare dei suoi grandi colleghi. Se ne aveva occasione, era soltanto per esaltarne le qualità straordinarie e sottolinearne le diversità. Quando accennava a Furtwängler non mancava di esaltarne l’immensità del pensiero e la gigantesca e totalizzante figura. Se parlava di Karajan era per metterne in risalto la genialità e la grande sensibilità. Di alcuni, a quel tempo giovani emergenti, diceva soltanto: “Ah, sì … bravo, bravissimo, ma è più famoso che bravo.” Soltanto di uno ne parlava in senso assoluto e con una devozione degna di un semidio: Arturo Toscanini. Non mancava di dire che nonostante la scelta discutibile dei tempi e una certa aggressività esecutiva, con lui la Musica viveva sempre: “Sì, forse sarà discutibile, ma è sempre vivo!”
Erano i tempi del Karajan da copertina, onnipresente coi suoi dischi in casa di ogni melomane e studente di musica. La mia generazione, abbandonati i vecchi 33 giri graffiati e ereditati dai genitori con esecuzioni a volte  anonime, si riversava sulla radio e sulla filodiffusione per ascoltare voracemente tutto. Era la fine degli anni ’60. La televisione, allora  in bianco e nero, al sabato intorno a mezzogiorno era solita mandare in onda concerti; la mania dei quiz e dei cuochi da osteria era ancora lontana. Per un certo periodo c’erano immancabilmente i film di Karajan con l’orchestra di Berlino che ora possiamo trovare anche in DVD e su Youtube, esattamente come la carne Simmenthal sugli scaffali del supermercato. Ricordo ancora con quale stupore m’incantai col ciclo delle sinfonie di Beethoven e successivamente  con gli straordinari concerti di  Rachmaninov e Tchaikovsky assieme a Weissenberg. Per non parlare delle sinfonie di Brahms e Tchaikovsky. Insomma, Herbert era l’ideale modello per molti giovani aspiranti direttori. Un modello totalmente sconosciuto nella sua vera profondità, ma così impressionante da non poter lasciare indifferenti. La bellezza del suono di Karajan è cosa nota. Il suo gusto per l’amalgama e un certo rifiuto per il dettaglio erano segni distintivi del suo pensiero interpretativo. Si trattasse di Beethoven o di Stravinsky, la ricerca del suono era il punto di partenza per la conduzione della composizione.
Il fatto che Karajan colpisse così tanto noi giovani, non stava certo nell’estetica del suono. A quindici o sedici anni è difficile averne già una consapevolezza. Era più che altro la disinvolta padronanza della Musica che esplicava nella direzione a memoria e nella sua straordinaria abilità nel plasmare l’orchestra come se al posto della bacchetta impugnasse un pennello col quale combinare colori e profondità, esattamente come un sensibile pittore. Ovviamente non era l’unico ideale modello di direttore perché quando iniziai a frequentare i concerti della Scala o del Conservatorio altri straordinari direttori avevano già iniziato a far parte del mio mondo ideale. Uno dei primi concerti da me ascoltati alla Scala fu la “Missa Solemnis” di Beethoven diretta da un anziano e canuto Eugen Jochum. Nonostante la difficoltà di comprensione della composizione che soltanto in età matura sono riuscito a elaborare, quel concerto è rimasto impresso fortemente nella mia memoria perché per la prima volta mi fece intuire la differenza fra una normale esecuzione e la celebrazione di un rito solenne. Negli anni successivi, ancora studente, ebbi la straordinaria opportunità di poter seguire le prove di tantissimi direttori d’orchestra della vecchia e della nuova generazione che qui cito in ordine sparso: Karl Böhm, Jascha Horenstein, Wolfgang Sawallisch, Leonard Bernstein, Lorin Maazel, Daniel Barenboim, Zubin Mehta, Carlo Maria Giulini, Claudio Abbado, Riccardo Muti. Ognuno di loro, con la personale peculiarità e maestria, mostrava già ai miei occhi una caratteristica condivisa: la nobiltà d’intenzione e il rispetto assoluto della partitura.
Tornando a Franco Ferrara amo citare un aneddoto personale che i miei allievi ovviamente conoscono. Egli non era un insegnante nel senso  comunemente inteso, era la Musica personificata. Da lui si andava non tanto per imparare qualcosa di specifico perché non era assolutamente in grado di esplicarlo didatticamente, bensì era come andare in pellegrinaggio a Lourdes in attesa di una grazia.  In mancanza quasi assoluta di registrazioni audio e video, solo chi ha potuto conoscerlo dal vivo può tentarne un ritratto perché il mito che gli aleggia intorno non fa che ingigantirne il mistero. Da lui si andava per acquisire certezze circa la propria natura. Solo con la sua presenza, magari con una smorfia di disgusto, era capace di modificare per sempre l’avvenire di un giovane direttore. Possedeva un magnetismo totalizzante. Se non l’avessi visto con i miei occhi saltare sul podio, urlare  col suo inconfondibile accento siciliano "Tchrombooni!" e sentire improvvisamente trasformata la sezione, mai ci avrei creduto. A lui devo la comprensione di Beethoven. Il giorno in cui diressi l’Ouverture Coriolano e mi sentii afferrare per il braccio urlandomi:  “Fermati, feeermatiiiiiiii!!! Po-po-po! Come Karajan lo fa, come Karajan!”.  Non disse altro, ma io compresi all’istante che lui, come depositario dell’arte toscaniniana, non amava le mezze tinte. Per lui Beethoven era come un dipinto cubista di Picasso, doveva essere scolpito con linee ben definite e poche “curve”: rigido, inflessibile, terribile.
Ricordo che un giorno un giovane direttore giapponese gli chiese se quel punto di quella tale ouverture doveva dirigerlo in due o in quattro. Ferrara gli rispose tranquillamente che forse poteva dirigerlo in cinque! Non sopportava la banalità durante la conduzione di una composizione, pretendeva soltanto la verità, ovviamente quella del compositore che doveva rivivere nella bacchetta del direttore. Ecco perché aveva una venerazione per Toscanini, fulgido esempio di rigore, onestà intellettuale e partecipazione emotiva ma sempre controllata. Ferrara non mancava di ricordare a noi tutti, prima del nostro ingresso sul palcoscenico, la più ardua delle condizioni ideali da raggiungere durante la direzione di un brano: “Vai, ma mi raccomando, cuore caldo e cervello freddo!”. 


Il rito e il trito

C’erano una volta le religioni e a loro stretta osservanza. C’erano i riti, oramai sopravvissuti nell’esteriorità e c’era la fede, unica superstite per chi la conserva ancora. In Musica è un po’ la stessa cosa, sopravvivono l’ideale di bellezza e elevazione spirituale per chi li mantiene in vita, mentre per altri rimane il godimento dell’intrattenimento puro e semplice. Questo atteggiamento riguarda i musicisti e gli ascoltatori. I primi, ascoltatori “ante litteram”, per poter spiccare un salto di qualità e svincolarsi da una visone puramente epicurea, dovrebbero esercitare sin da subito un immenso sforzo personale atto a sconfiggere il facile, il banale, il conveniente. Posizione scomoda che prefigura un cammino lungo che ha inizio in gioventù. Mi riallaccio all’introduzione di questo mio scritto e all’importanza di un ingresso ben guidato nel mondo della Musica al fine di preparare un terreno fertile per la crescita del futuro artista. Ovviamente le mie considerazioni riguardano chi evidenzia precocemente quelle predisposizioni che lo differenziano dal comune amatore, seppur di talento. Quest’ultimo, peraltro, se posto nelle medesime condizioni di crescita ha la possibilità di giungere egualmente a quel mondo ideale particolare, esattamente come il futuro artista in carriera, e avere quell’attitudine alla comprensione della Musica a volte superiore all’artista stesso perché imprigionato dalla quotidianità e dalla ripetitività del proprio compito.
In ambito direttoriale, dove la destrezza gestuale è soltanto la parte manifesta di una ben più complessa tecnica che include abilità uditive, di memorizzazione, d’immaginazione, di persuasione e per ultimo d’interpretazione, l’aspettativa verso un giovane può essere disattesa dopo pochi anni a causa di un inatteso livellamento e un’omogeneizzazione causati dalla routine precoce. Le scelte effettuate all’ inizio del corso di studi e poi con l’ingresso nell’attività artistica, hanno la forza per delinearne il futuro personale e musicale facendo sì che tenda a sviluppare le proprie intuizioni e rinnovare continuamente il proprio pensiero interpretativo evitando di cadere nell’ovvio, se non nel cattivo gusto. Il possesso di un’ottima e comunemente intesa “tecnica direttoriale” gestuale semplifica certamente il compito del direttore, soprattutto in un’epoca dove non c’è tempo per pensare, ma soltanto per agire. In periodi dove l’apparenza è sovrana e in concomitanza di fattori oggi ritenuti fondamentali per questa professione come l’avvenenza dell’artista, la sua rapidità nella preparazione, l’accontentarsi dei risultati a volte mediocri e il non porsi domande eccessivamente problematiche, accade che un giovane direttore diventi suo malgrado un riferimento inadatto per altri giovani. Un brutto circolo vizioso che non fa bene alla Musica. Il fatto che salga addirittura sui podi delle orchestre più blasonate non è di per sé sbagliato, ma è molte volte collegato a concomitanze che qui preferisco non prendere in considerazione per non scivolare nella sterile polemica e perché comunque fanno parte di un andamento secolare decisamente “umano, troppo umano”.
In tempi antichi sul piedistallo si ergevano gli dei e i semidei, quelli che Dante condannava e da allora nulla è cambiato. Come recita un aforisma di Bertold Brecht: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”.


Perché Karajan, gran cerimoniere, aveva ragione

Ci fu un periodo in cui la figura di Herbert von Karajan venne messa in discussione. Non mi riferisco alle polemiche circa ai suoi trascorsi collegati alla sua adesione giovanile al Nazismo, bensì alle critiche ricevute da quel circuito di intellettuali detrattori che per partito preso e in contrapposizione ai ”nuovi modelli” direttoriali, pensava di determinarne il precoce annichilimento. Sfortunatamente per loro, Karajan sopravvive tutt’ora grazie alla sua grandezza, alla sua lungimiranza e attualità di pensiero.
Ovviamente possiamo discutere all’infinito se le sue interpretazioni, come quelle di altri grandi direttori ormai scomparsi, abbiano valore per le orecchie e i cuori degli anni duemila, ma non è questo il punto. E’ certo però che la sua testimonianza di stile, rigore, bellezza, poetica e raffinatezza si perpetua nelle centinaia di registrazioni audio e video che fortunatamente abbiamo a disposizione. Sono circa cinquant’anni di un patrimonio straordinario utilissimo per comprenderne il percorso stilistico, dalla prima maturità al coronamento finale della sua grandezza musicale.
Il giovane Karajan dirigeva con gli occhi aperti e una gestualità generosissima, quest’ultima caratteristica comune agli inizi per molti direttori. Con l’arrivo alla Filarmonica di Berlino, iniziò a dirigere ad occhi chiusi perché quest’azione gli permetteva di “vedere” meglio la partitura e, non vedendo l’orchestra, poteva sentirla meglio, concentrandosi sugli equilibri differenti. Pur essendo pianista, le partiture le studiava a memoria, senza alcun ausilio dello strumento. In questo modo le interiorizzava fino all’ultimo dettaglio assorbendone l’essenza spirituale. Caso unico e irripetibile, non imitabile ma certamente da osservare attentamente nei più minuti dettagli se si desidera comprenderne alcuni segreti essenziali che possono aiutare un giovane nell’impresa di emularne lo spirito per avvicinarsi al suo risultato ideale.
Karajan è stato l’unico direttore che è riuscito a comprendere profondamente la funzionalità espressiva del proprio gesto e a modificarlo negli anni portandolo ad un punto di massimo  perfezionamento. Questo percorso si dovette interrompere a metà degli anni ’70 a causa dell’operazione per la rimozione di un’ernia spinale che lo lasciò claudicante per il resto della vita. Il Karajan superuomo che pilotava l’aereo personale, guidava macchine sportive, sciava sul Monte Bianco e navigava sul suo yacht era improvvisamente scomparso. Al suo posto era apparso un uomo che si muoveva rigidamente e in modo limitato, ma che improvvisamente dirigeva con gli occhi spalancati, divenuti essi una rinnovata proiezione delle braccia non più articolabili con l’ identica elasticità degli anni precedenti. Il passaggio dalla buona condizione fisica a quella più compromessa segnò la grande svolta spirituale di Karajan e il suo passaggio verso una direzione indubbiamente meno particolareggiata ma molto più intensa, naturale ma ugualmente contemplativa.
Il viso di Karajan era quasi sempre ieratico, difficilmente lo si vedeva sorridere, ma col gesto esprimeva tutto: movimento, colore, profondità di suono, grazia, potenza. Aveva prima di tutto e sopra ogni cosa la solennità di un maestro di cerimonia, una sorta di druido depositario di una cultura immutabile nella sua essenza più profonda e millenaria. Si poteva scorgere una tensione nella zona inferiore del viso o un leggero aggrottamento della fronte, ma sempre incorniciati in una nobiltà di espressione da sempre posseduta. Ciò che ad altri direttori costava spiegazioni talvolta superflue con conseguente perdita di concentrazione da parte dell’esecutore, con lui diveniva subito comprensibile soltanto grazie ad un piccolo gesto. Si trattasse di un attacco flebile ad un flauto o un disteso appoggio dei violini, egli non aveva bisogno di chiedere altro, al contrario di direttori anche bravi ma che non possedendo certe qualità gestuali dovevano per forza ricorrere a sollecitazioni verbali. Aveva compreso molto bene che la ricerca del suono, intesa come modulazione di intensità e sfumature, dipendeva esclusivamente dall’ampiezza o dalla ristrettezza del gesto e che una frase, anche complessa, in questo modo era possibile governarla al meglio con un risparmio di energia fisica. Infatti, col tempo Karajan aveva raggiunto un grande equilibrio che gli permetteva di controllare la sudorazione e le pulsazioni, esattamente come un atleta durante il maggiore sforzo. Ovviamente tutto questo era il risultato di un impegno di concentrazione maturato col tempo grazie a uno studio mnemonico particolarissimo già rivelato in età giovanile e manifestato poi grandemente nei decenni successivi. Soprattutto il frutto di una chiara e maturata idea musicale scaturita da un lungo studio e una lunga assimilazione della partitura, tale da poter poi essere emanata attraverso il gesto fisico.
Molti sono portati a pensare che il lungo percorso di Karajan verso la ricerca di una perfezione del risultato musicale fosse opera esclusiva di un esibizionista o di un megalomane accentratore tout-court. Indubbiamente il superuomo di Nietzsche in lui aveva trovato dimora nella sua più alta manifestazione, ma concludendosi improvvisamente col suo ritorno a uomo normale. L’ultimo periodo artistico di Karajan, governato da essenzialità, moderata ricerca del dettaglio e solennità ci ha lasciato testimonianze uniche della sua opera: l’ottava e la nona Sinfonia di Bruckner, la Missa Solemnis di Beethoven, il Deutsches Requiem di Brahms, Il Don Carlo di Verdi. In tali esecuzioni possiamo osservare talvolta un direttore pressoché immobile al quale basta sollevare un sopracciglio per governare un fraseggio o richiedere una dinamica. Praticamente l’essenza della direzione d’orchestra nel suo più intimo significato: la perpetuazione di un’antica cerimonia sul difficile cammino verso la perfezione di sé stessi e della Musica. Un mandato solenne teso a far proseliti al fine di divulgarne il messaggio trascendente.




C’è musica e Musica

… E ci sono direttori e Direttori. Il riconoscimento immediato del talento di un giovane aspirante direttore, nel mio caso avviene quasi sempre nel momento in cui egli entra nella stanza dove tengo il colloquio per l’esame d’ammissione ai miei corsi. Il personale modo di camminare, di salutare, di stringermi la mano ne denota immediatamente il carattere e in parte la personalità. Soprattutto è indice del suo “senso ritmico” generale e della sua determinazione. In tutti questi anni, raramente mi sono dovuto  ricredere nel momento in cui egli saliva sul podio; le caratteristiche personali di solito sono mantenute pressoché integralmente. Altro sono le qualità strettamente musicali, non sempre decisive per il futuro successo, esattamente come avviene in altri campi dove l’evidenza del risultato è molte volte svincolata dal suo effettivo merito.
Il ruolo del direttore, si sa, è oggetto da sempre di critiche. In tempi dove il senso dell’autorità è pressoché scomparso, è già molto che egli possegga autorevolezza e la mantenga. Questa non si impara, né si insegna; c’è o non c’è. Non dipende sempre da quanto si conosce, né dal ruolo che si ricopre e può durare nel tempo grazie alla solidità della persona, oppure svanire in breve a causa della sua debolezza. Contrariamente al senso di autorità che può sussistere per l’ufficio ricoperto al momento, l’autorevolezza appartiene al carattere originale dell’individuo e può arricchirsi lungo tutto l’arco della vita con lo sviluppo della personalità, grazie alle esperienze precedenti. In presenza di giovani con caratteristiche “speciali”, il compito del docente può presentarsi arduo, in quanto deve riuscire a governare un carattere solitamente autonomo e irrequieto e nel contempo bilanciarlo con alcune richieste comportamentali che devono essere acquisite e maturate dall’allievo al fine di non neutralizzare le proprie qualità. Non si contano i casi di brillanti e talentuosi giovani che “si son dati la zappa sui piedi” a causa di un immaturo carattere e di una presunzione esagerata. Se invece, ci troviamo in presenza di persone con “requisiti” inadatti nel reale senso del termine, ovvero timidezza cronica,  mancanza di autocontrollo, limitata armoniosità di movimento e quindi assenza del basilare senso ritmico, intraprendere questo studio diviene pressoché impossibile. Eppure, c’è chi ci tenta caparbiamente …
Ovviamente, c’è chi nasce direttore. Alcuni sono nati con la bacchetta al posto del cordone ombelicale, come Zubin Mehta. La plasticità del suo gesto, il senso vitale e l’eleganza insita in esso, nonché l’autorevolezza musicale sono qualità naturali impossibili da imparare, ma che è probabile soltanto affinare col tempo. A trent’anni Mehta dirigeva già come un direttore con un’esperienza ventennale, con una padronanza della materia musicale e con una maturità rara. Ovviamente si parla di un fuoriclasse che, come altri grandi, è inimitabile e che probabilmente sarebbe emerso anche senza l’ausilio di alcuna scuola. In vita mia conobbi un solo direttore, di lui più giovane di tre anni e bravissimo, che gli somigliava nel modo di dirigere e che possedeva una simile plastica gestualità, ovviamente non ricalcata: il viennese Walter Weller, direttore sensibile e profondo, ma sconosciuto al grande pubblico.
Non si pensi che musicisti in limitato possesso di queste rare e insite peculiarità, non abbiano ugualmente la possibilità di approdare a validi traguardi. Non si contano i casi di direttori, diciamo un po’ impacciati, che grazie alla loro statura musicale sono riusciti a compensare le carenze gestuali comunemente intese, superando ostacoli di diffidenza e ritrosia iniziali da parte delle orchestre. Sfortunatamente, la figura del direttore d’orchestra si è modificata nel tempo assumendo l’aspetto più dello showman che del musicista. Il suo atteggiamento eroico e la sua figura demiurgica hanno incantato per decenni pubblico e orchestre, non sempre grazie agli specifici valori di competenza e bravura. Non starò qui a disquisire su fatti comprensibili a tutti, dico soltanto che in trent’anni e più d’insegnamento mi sono capitati allievi indiscutibilmente più dotati e competenti di celebri e onnipresenti direttori da tutti conosciuti. Alcuni di loro, i più solidi umanamente, sono andati avanti con costanza su una strada lenta ma di personale soddisfazione, tuttavia senza avere successivamente un largo riconoscimento “pubblico”. Altri  si sono arenati alla prima difficoltà perché insufficienti e deboli di carattere, incapaci di affrontare situazioni emotive pesanti, talvolta in grado di ledere irrimediabilmente il proprio temperamento. C’è poi chi ha avuto la classica sfortuna …
Fra i direttori d’orchestra “particolari” tuttora in attività, non manco mai di citare ai miei allievi Valery Gergiev, direttore russo con caratteristiche singolari. La sua tecnica direttoriale anche in questo caso non fa “scuola”. Il modo di dirigere è indiscutibilmente personale, con quel movimento vibratorio continuo che certamente appartiene al suo istinto musicale e non è frutto di un apprendimento convenzionale. Dirige soprattutto con gli occhi, la mano è soltanto un coadiuvante espressivo, certamente non un riferimento univoco per gli orchestrali perché talvolta può apparire confuso. Eppure, basta parlare con i musicisti che hanno avuto occasione di suonare con lui, tutti vi diranno che egli comunica una sicurezza (soprattutto musicale) per la quale è impossibile non comprenderlo nella sua completezza. Anche se ogni tanto può apparire indecifrabile tecnicamente, la sua padronanza espressiva è totalizzante.
Se esistono direttori e Direttori, è perché esiste musica e Musica. I Direttori hanno a cuore generalmente soltanto la grande Musica, per il semplice fatto che sin da giovani hanno operato scelte ben determinate e consapevoli ed effettuato risolutive scremature. I direttori bravi, professionali, affidabili ma ordinari, generalmente si occupano un po’ di tutto e grazie alla loro “versatilità” saltano da una sinfonia di Pleyel al Torvaldo e Dorliska di Rossini o dalla Suite de Lo Schiaccianoci di Tchaikovsky al Divertissment di Ibert, esattamente come un’ape di fiore in fiore. Come le api, a seconda dei fiori visitati e che permettono loro di produrre dolce miele d’Acacia o amaro miele di Corbezzolo, alcuni di questi direttori raramente entusiasmano per le loro esecuzioni. In genere si producono in oneste ed efficienti perfomance, ma niente più. Se poi, per sventurata condizione, questi direttori in vita loro si sono occupati soltanto della musica e poco della Musica, nel momento in cui s’avvicinano a quest’ultima, frequentemente la feriscono mortalmente con effetti devastanti per i musicisti competenti e sensibili e per gli ascoltatori dalle orecchie più raffinate e colte.
Ho illustrato precedentemente il mio pensiero riguardo a un’indispensabile “ricerca della perfezione” sin dagli albori del proprio iter formativo. Quando un giovane inizia per desiderio, o ritrovandosi suo malgrado, a occuparsi della Musica, ha di fronte due strade: il perenne divertimento fine a sé stesso come atto totalmente disimpegnato o un giuramento solenne ai piedi della bellezza nella sua totalità di accezioni. E’ un po’ così per tutte le attività umane, comuni o speciali. Noi siamo ciò che mangiamo, ciò che guardiamo, ciò che leggiamo e ascoltiamo. Ognuna di queste azioni ci condiziona in ogni secondo della nostra vita e condiziona le nostre reazioni. Un buon sapore, la visione di un campo fiorito, la lettura di una poesia o l’ascolto del canto degli uccelli mentre siamo sdraiati su un prato è in grado di trasformarci, magari anche per poco, in una condizione particolarissima e elevata, proiettandoci al di fuori dalle nostre ovvietà quotidiane.




Beethoven, senza Schiller. Debussy, senza Turner. Verdi, senza Shakespeare.

Un giorno venne da me un ex allievo al quale avevano proposto di dirigere alcune arie d’opera in uno di quei primi concerti ai quali “è impossibile dire di no”. Mancava un paio di giorni all’inizio delle prove e, nonostante avesse studiato per diverse settimane, egli era preoccupatissimo per le solite banalità: come togliere le corone, se applicare un respiro e “ovviamente” dove dirigere in uno, in due, in tre o in quattro. Fortunatamente non c’era nulla del repertorio del novecento, sicché mi risparmiai di disquisire sul cinque e sul sette … Fra i vari brani c’era un aria dall’Otello di Verdi e dissertammo per circa dieci minuti sulle solite banalità direttoriali. Il ragazzo sembrava essere molto ferrato perché nei mesi precedenti aveva ascoltato due importanti registrazioni di riferimento, quelle di Toscanini e Karajan. Quando gli chiesi se per caso si era preoccupato di leggere anche  il dramma di Shakespeare, mi guardò con un’aria mista a sconforto e incredulità, come per dire: ma io sono un musicista, non un letterato! Un banale esempio di come, prima di un viaggio, si possa “partire in un sacco” e “tornare in un baule”. Esattamente come accade a molti adolescenti quando si recano in gita scolastica infestando città d’arte come Firenze, Roma e Venezia. Guardano, ma non osservano. Sentono, ma non ascoltano. Parlano, ma non dibattono.
Nel caso dei giovani musicisti è di frequente una regola comportamentale e a volte, in presenza di improvvise intuizioni interpretative, forse è bene sia così. La Musica, quella pura in particolare, è molto spesso monopolizzante perché si esprime da sola e non necessita di particolari ausili, bensì soltanto di vera folgorazione. Quando però si ha a che fare con una composizione che prevede un testo, si presuppone che l’interprete si avvicini ugualmente a quel mondo, particolare e parallelo anch’esso permeato di emozioni, e che sta alla base dell’opera musicale. Si tratti dell’Otello di Verdi, del Requiem di Mozart o dei Carmina Burana di Orff, fa poca differenza. Il testo poetico è già musica di per sé e, ovviamente, comanda. Chi si occupa di teatro musicale, ben sa che prima ancora di sfogliare una partitura è indispensabile conoscerne il contenuto letterario alla perfezione. Soltanto così è possibile entrare nei più nascosti labirinti drammaturgici e magari scoprire che una parola è in grado di suggerire un colore particolare o un’intensità sonora da richiedere all’orchestra o a un cantante.
Anche per la musica pura vale un po’ il medesimo ragionamento: scoprire che il pittore inglese Turner e il giapponese Hokusai ebbero la più grande influenza sulle opere di Debussy, cambia radicalmente la concezione che generalmente si potrebbe avere dell’impressionismo musicale in relazione alla medesima corrente pittorica del periodo. Leggere “Della poesia ingenua e sentimentale” e scoprire che Schiller in vita sua si occupò di “bellezza” e di “sublime”, può far comprendere anche una sola parola o una singola nota dell’Inno alla Gioia della Nona  Sinfonia di Beethoven e realizzare all’istante il modo di eseguirla. Rimarrà sempre nella mia mente il momento in cui Carlo Maria Giulini, dirigendo questo capolavoro, in prova fermò il coro chiedendo che la parola “Gott” precedente l’inizio della Marcia e educatamente cantata in fortissimo, venisse scandita quasi urlata e non solo per il ff scritto in partitura. Evidentemente, per un fervente credente qual’era Giulini, quella parola, accompagnata da quelle note, poteva essere eseguita soltanto con quell’intenzione tremenda e assoluta. 

Il “Sol” levante …

Se trasmettere il pensiero musicale occidentale  è cosa relativamente semplice fra individui appartenenti alla medesima cultura, diventa talvolta un’impresa faticosa quando ci si rivolge a musicisti provenienti da zone del mondo dove la musica praticata e ascoltata dalla stragrande maggioranza della popolazione non è propriamente la nostra. L’amore e l’attenzione che da decenni e decenni popoli a noi culturalmente lontanissimi riversano sullo studio della Musica occidentale e sulla sua conservazione e divulgazione, è cosa nota. Meno noto è, soprattutto ai non musicisti, che la sensibilità e capacità di comprensione verso un brano musicale, anche a parità di conoscenza sintattica, non è la stessa. Quando si parla di universalità della musica, si commette un grossolano errore. E’ come parlare di universalità del cibo: chi di noi si ciberebbe di scarafaggi, cavallette o cani? Eppure, in alcuni luoghi di questo pianeta, c’è chi ne va matto. Non credo basterebbe frequentare dieci anni di corso di cucina “alternativa” per comprendere a fondo simili comportamenti gastronomici. Potremmo al massimo conoscerne a fondo le motivazioni senza peraltro condividerle e continuare a mangiar spaghetti al pomodoro. La musica, come tutte le arti, non è sufficiente comprenderla, va vissuta prima e dopo, con l’inevitabile conseguenza di una modificazione di noi stessi. L’uomo, col suo ragionamento e sforzo di immaginazione, è indubbiamente in grado di darsi motivazioni d’ogni tipo e giungere a un atto di comprensione, ma raramente di condivisione. Secoli di “habitat” culturale e secoli di storia non si azzerano in pochi anni di studio, nemmeno per un’onesta sincerità d’intenzioni. Se avviene ciò è normalmente per un semplice desiderio di acquisizione enciclopedica e nulla più.
Mi è accaduto di avere fra i miei allievi e allieve alcuni validi musicisti già in età matura e provenienti da Giappone, Vietnam o Corea. In genere erano sempre preparatissimi e ferrati sulle composizioni che dovevano dirigere, alcuni di loro, tanto per cambiare, tecnicamente molto più preparati degli italiani. Memoria più sviluppata, precisione gestuale, buon orecchio selettivo. Tutte caratteristiche che definiscono la “professionalità” del moderno direttore d’orchestra e che ne denotano l’affidabilità. Il problema è sempre sorto quando, nel mezzo di una conduzione pressoché perfetta, durante l’esecuzione accadeva di tutto e di più.

“Senti, Hakoi (nome inventato), vorrei farti notare che quel Sol dei violini ha un punto e significa che deve essere eseguito staccato,  separato dalle altre note.”
“Ah, subito Maestlo, adesso lifaccio tutto da capo”. Passano le battute e si arriva al medesimo punto.
“Guarda che i violini stanno suonando staccato!”
Ma Maestlo, Lei ha appena detto che i violini hanno un punto sul Sol!” . Si ripete tutto da capo e si arriva ancora al medesimo punto.
“Scusa, Hakoi, ma il movimento è lento e quel Sol staccato va eseguito nel tempo di esecuzione. Questo è un andante, non un allegro!”.

Ecco il punto: il Sol col punto. Riuscire a far comprendere che scritto da Bach ha un significato e va eseguito in un modo, scritto da Mozart, da Schubert o da Beethoven in un altro e che è sempre in relazione alla velocità del movimento in questione, è stata ed è tutt’ora un’impresa talvolta impervia. Il punto, come altri segni grafici, inteso come concetto extra-musicale e trascendentale, per alcuni è totalmente incomprensibile. Che appartenga a un brano di Bartok o Stravinsky, assumendone di conseguenza un’espressione del tutto differente, sembra sia quasi un’impresa imperscrutabile. Se viene puntualizzato e compiuto al momento dell’esecuzione è unicamente per una formalità grammaticale. Non è facile far comprendere che una nota tenuta di Schubert è come una carezza sensuale o che uno sforzato di Beethoven può somigliare a un coltellata nella schiena a individui che, magari per cultura, non sono abituati a scambi fisici come una calorosa stretta di mano accompagnata da un abbraccio o che hanno un rifiuto “storico e sociale” per l’aggressività sotto ogni forma. Checché se ne pensi, simili comportamenti non riguardano soltanto gli orientali, ogni tanto mi è capitato anche con italiani, tedeschi (!!!), francesi e spagnoli. E’ sempre una questione di frequentazioni e di atteggiamenti personali e universali. Certe volte è una carenza di sensibilità e altre un’evidente incapacità di comprensione che va al di là delle note, magari elegantemente eseguite. Ma ciò riguarda anche chi, pur trovandosi per cultura e formazione a operare da anni in condizioni “privilegiate”, in certe occasioni svela la propria vera natura: l’ incomunicabilità e il fraintendimento del testo musicale.
  
Oh yeah Ludwig, it’s OK!

Sarà stato intorno agli anni novanta, durante uno di quei pomeriggi estivi talmente torridi che ti portano soltanto a star fermo perché anche la respirazione ti fa sudare come un cammello. Sdraiato sul divano accesi la televisione che dalla sera precedente era rimasta sintonizzata sul canale tedesco ZDF. Bastarono due note per scoprire che l’orchestra stava suonando le prime battute della mia amatissima “Missa Solemnis”, quella ascoltata da giovanissimo alla Scala e che lasciò un marchio indelebile nel mio animo. Il direttore, finalmente inquadrato, era famosissimo. Uno di quelli che in vita sua ha trascorso forse più ore in sala d’incisione che in sala da concerto. Non dico altro. A un certo momento, dopo una frase dei clarinetti molto ben eseguita, si rivolse agli esecutori alzando il pollice della mano sinistra per indicare un volgarissimo e fuori luogo “OK!”. In quel momento non credetti ai miei occhi e tutt’ora mi sembra di aver sognato o aver frainteso. Invece no, era proprio così, ci mancava che dicesse “Dammi cinque!” e il compimento di questa raffinatezza e sensibilità d’animo sarebbe stato compiuto nella sua originalissima eccellenza.
Quando rammento a miei allievi questa triste esperienza personale, non manco mai di paragonare l’ufficialità del momento di ri-creazione dell’opera musicale a quello esercitato da un’autorità religiosa durante una funzione. Ve lo immaginereste il Santo Padre interrompersi nel bel mezzo del suo discorso domenicale, avendo scorso un caro amico fra la folla, e che improvvisamente gli dicesse a gran voce: “Ci vediamo dopo a pranzo!”? Dopo un secondo sarebbe la fine definitiva della Chiesa, con tutti i suoi ministri e apparati.
Per fortuna la Musica è più forte e sopporta anche simili offese. Ormai è abituata a subire ingiurie d’ogni tipo, anche da chi non potrebbe permetterselo nemmeno per scherzo. La nobiltà d’intenzioni e le conseguenti manifestazioni appartengono soltanto all’animo nobile, perché la Musica, come diceva Leonard Bernstein, è grande soltanto quando è nobile, in qualsiasi forma essa si presenti.

….”la commedia è l’imitazione di persone che valgono meno, ma non per un vizio qualsiasi, giacché il ridicolo è una parte del brutto. Il ridicolo, infatti, è un errore o una bruttura che non reca né sofferenza, né danno, proprio come la maschera comica è qualcosa di brutto e stravolto, ma senza sofferenza”. (Aristotele, Poetica)




Un giorno ebbi occasione di assistere a una prova del grande Wolfgang Sawallisch, giunto a Milano per dirigere un concerto con musiche di Richard Strauss. Fra i brani in programma c’era “Heldenleben”, il celebre poema sinfonico cavallo di battaglia di molti direttori d’estrazione germanica. A un certo punto, Sawallisch fermò l’orchestra per fare un’osservazione alla sezione dei tromboni che evidentemente stava suonando “a tutta birra..”. Mi sarei aspettato la solita richiesta per la diminuzione dell’intensità, del tipo: “Per favore potete suonare più piano?”. Con grande mia sorpresa Sawallisch non disse nulla, bensì si espresse “nobilmente” soltanto con un dolce sfregamento dei palmi delle mani, uno sopra l’altro, dicendo: “Dovreste suonare un po’ come …”. Non proferì altra parola, riprese dal medesimo punto e l’orchestra era improvvisamente trasfigurata. Ecco un esempio di nobiltà d’intenzione splendidamente espressa in un modo semplicissimo.

Quello che segue è un articolo pubblicato a suo tempo dalla rivista “Prospettive Musicali”. Lo ripropongo qui integralmente con leggere modifiche, a conclusione di queste personali considerazioni su di un’arte che nei decenni si è profondamente modificata. In meglio o peggio sarà la storia a dirlo, la mia è soltanto una sollecitazione a meditare su argomenti talvolta scomodi, ma attuali. 

Dirigere oggi

Contrariamente a quanto s’immagina, per dirigere un’orchestra non occorrono doti straordinarie di tecnica direttoriale né di preparazione musicale. Occorre semplicemente un discreto senso ritmico e un po’ di orecchio. Prova lampante ne diedero nel passato due tra i più grandi attori comici americani: Danny Kaye e Jerry Lewis. Chi ebbe la fortuna di assistere alle loro esilaranti esibizioni nella veste di direttori d’orchestra non può negare la grande abilità dimostrata, per chiarezza di gesto, incisività e per presenza direttoriale. Proprio Danny Kaye si esibì con l’Orchestra Filarmonica di New York in una performance, dove mimava gli atteggiamenti di alcuni direttori: il giovane alle prime armi, quello più navigato, il vecchio direttore alla vigilia della pensione, quello con i tic e una rassegna dei direttori di varia estrazione, dal teutonico intransigente al latino super focoso, dal nordico preciso al francese “tutto charme”. In pratica una divertentissima ma grande lezione di direzione d’orchestra.
Simili avvenimenti ci fanno capire che le scuole di direzione servono ben poco se non ci sono una predisposizione naturale alla comunicazione e una spontanea e innata musicalità, non tecnicamente acquisita. Si può apprendere una qualsiasi tecnica strumentale e arrivare a essere un buon esecutore (se ovviamente non esistono impedimenti fisici e una spiccata antimusicalità), ma difficilmente si potrà raggiungere un connubio tecnico-espressivo di spessore in ambito direttoriale, anche studiando caparbiamente per anni.
La predisposizione fisica è essenziale, certamente non un requisito di per sé sufficiente, ma molto importante perché componente primaria per una comunicazione espressiva e per l’impronta sonora propria di un direttore. Il possesso di una tecnica direttoriale non estranea alla propria fisionomia è basilare, ma non si creda così scontato. Molti musicisti passano dal proprio strumento al podio facendosi forza dell’esperienza artistica maturata negli anni, ma spesso con esiti mediocri perché considerano ovvio il risultato musicale. Non è così, perché la bacchetta non dovrebbe essere un corpo estraneo stretto in una mano, ma il prolungamento fisico e la proiezione mentale del direttore.
Il raggiungimento dell’armonia tra gesto e idea musicale, indispensabile unione per comunicare con l’orchestra, richiede tempo e maturazione continua. Un giovane musicista è sicuramente avvantaggiato rispetto a un collega più maturo, anche se quest’ultimo ha alle spalle una solida esperienza musicale. Il giovane ha più tempo per inquadrare la propria tecnica e soprattutto per migliorarla tagliandosela addosso, come un sarto confeziona un vestito. Naturalmente il corredo di conoscenze accessorie, in altre parole lo studio di uno o più strumenti, della composizione, degli stili, della storia della musica e l’appassionata frequentazione di discipline complementari, completerà la sua formazione; l’esperienza continua con l’orchestra, unione di uomini prima di tutto, e quindi l’esperienza umana lo arricchirà e contribuirà alla costruzione dell’individuo-artista. Un colpo di fortuna, se e come arriverà, sarà il benvenuto.
Il giovane aspirante direttore dovrebbe essere consapevole che da qualche tempo l’arte della direzione d’orchestra si sta trasformando; la figura “demiurgica” del direttore così come l’abbiamo conosciuta per decenni sta svanendo, se non è già addirittura scomparsa, e al suo posto è subentrata, e sfortunatamente accettata, quella di un “tecnocrate della bacchetta” pronto  a qualsiasi compito di coordinamento, come un buon manager con i suoi collaboratori. Oggi ai giovani direttori sono richieste prontezza, salute psico-fisica, efficienza e devono dimostrarsi inclini ad accettare di eseguire un po’ tutto il repertorio, anche se sovente a scapito della propria predisposizione e sensibilità. E’divenuta una triste consuetudine osservare un direttore cimentarsi con autori con i quali instaura conflitti esistenziali: conduzioni beethoveniane per Vivaldi, sfumature raveliane per Brahms, fragore mahleriano per Schumann e così via. Per non parlare della gestualità: ampie evoluzioni del braccio in brani che richiedono la massima discrezione oppure blocco da periartrite cronica della spalla per musica che richiede slancio e passionalità. Errori interpretativi e letture generiche del grande repertorio sono ormai all’ordine del giorno nonostante le lezioni di figure direttoriali gigantesche come Furtwängler, Klemperer, Toscanini, Walter e poi Bernstein, Böhm, Karajan solo per citare alcuni celebri nomi. Incredibile ma vero, anche nei luoghi consacrati alla grande musica, si ascoltano quotidianamente concerti noiosi, della peggiore routine tra la generale approvazione di un pubblico sempre più assuefatto, apparentemente insensibile e distratto. Da qualche tempo assistiamo a una sorta di generale omologazione alla quale l’esecuzione musicale sembra non sottrarsi e le orchestre di tutto il mondo, fatte poche e dovute eccezioni, sono l’esempio più tangibile di un appiattimento del gusto e di una sempre più scarsa sensibilità alla sollecitazione direttoriale. Vige una sorta di “rifiuto del comando”, una specie di autogestione, di accordo interno al quale i direttori, se vogliono dirigere, devono sottomettersi. E molti direttori d’orchestra sono stati e sono i peggiori “complici” di questa situazione. Le orchestre, a loro volta succube di situazioni spesso di comodo (direttori principali eletti per garantirsi contratti discografici e tournée) si sono ritrovate senza direttori veramente “stabili”, capaci e volonterosi di plasmare e curare il “sound” oltre che di instaurare quel rapporto umano, personale, teso alla fusione di anime prima ancora che di strumentisti.
Tutto ciò non deve disarmare il giovane direttore che si appresta ad affrontare un’arte musicale che rimane sicuramente tra le più affascinanti e che può riservare grandi soddisfazioni. E’ compito delle nuove leve di musicisti ricollocarla in una giusta dimensione e donarle un nuovo e vitale smalto. E’ compito dei maestri inculcare nei giovani il senso di onestà, artistica prima di tutto e intellettuale in senso più lato. E’ compito di tutti, musicisti e non, combattere la banalità, non accettare le mode “filologiche” senza senso e il tecnicismo esasperato che ha da tempo inaridito le esecuzioni; ricordare che la musica appartiene all’uomo e che è proiezione dei suoi sentimenti, delle sue passioni e delle sue intuizioni.


Gilberto Serembe, milanese classe 1955, ha fatto in tempo a studiare Composizione e Direzione d’Orchestra con gli ultimi grandi Maestri della scuola italiana: Bruno Bettinelli, Franco Ferrara e Mario Gusella. Per vent’anni ha riversato le proprie forze nell’ impegno direttoriale e in quello didattico. Poi si è sposato e ha preferito abbandonare le valigie per  dedicarsi principalmente a quest’ultima attività, in quanto gli permette una maggior serenità, tempo per sé stesso e al contempo molte soddisfazioni. E’ un bravissimo cuoco e i suoi allievi, alcuni ormai celebri, non mancano mai di condividere le sue ricette culinarie assieme a quelle musicali. Alcuni fidati musicisti, amici e allievi ritengono sia anche un buon direttore d’orchestra …
E’ docente di ruolo al Conservatorio di Brescia e per ventidue anni ha tenuto il corso di Direzione d’Orchestra all’ Accademia Musicale Pescarese, prima di approdare all’ Italian Conducting Academy di Milano.